Rischia l’ergastolo perché ha partorito un bambino nato morto

par Francesca Barca
lunedì 31 marzo 2014

Rennie Gibbs nel 2006 aveva 16 anni. Rimasta incinta, ha partorito una bambina, Samiya, nata prematura e morta immediatamente dopo il parto. La causa della morte viene ricondotta allo strozzamento causato dal cordone ombelicale.

Siamo in Mississippi e Rennie – oggi 23enne – è di colore e viene da una storia di disagio sociale.

Rennie risulta positiva ai test di marijuana e cocaina, e sul corpo di Samiya viene effettuata un’autopsia che evidenzia tracce di benzoilecgonina, un derivato dalla cocaina. Per il medico legale, Steven Hayne, è quest’ultima la causa della morte: Rennie avrebbe, secondo l’accusa “illegalmente, volontariamente e colposamente causato la morte della sua bambina”.

Da sette anni gli avvocati di Rennie stanno lavorando perché il caso venga annullato, ma a breve la corte del Mississippi emetterà un giudizio. Se condannata, Rennie potrebbe rischiare l’ergastolo.

Rennie ha indubbiamente fatto uso di sostanze stupefacenti durante la gravidanza. Ma questa vicenda solleva diversi problemi, e quello dell’uso di droghe è solo uno dei tanti.

Prima cosa: il consumo di cocaina provoca la morte del feto? È provato infatti che possa provocare la rottura della placenta – fatto non riscontrato nel caso di Rennie – ma, al contrario non esistono evidenze scientifiche di una correlazione tra morte del feto e uso di cocaina durante la gravidanza. Anzi, uno studio durato 25 anni che ha seguito bambini nati da consumatori di crack non mette in relazione le due cose (qui e qui maggiori informazioni).

Sia chiaro, nessuno – o quasi – pensa che l’uso di cocaina durante una gravidanza sia da consigliare, ma l’evidenza scientifica (la correlazione, e quindi la prova giuridica) non è ancora stata riscontrata. Per questo pare evidente che alla base della scelta dello Stato del Mississippi ci sia la volontà di punire un comportamento considerato illegale. Nel caso specifico di Rennie, altri medici hanno sostenuto che la quantità di benzoilecgonina presente nel corpo di Samiya fosse troppo bassa per provocarne la morte. 

Seconda cosa: è davvero possibile accusare una donna di omicidio per aver consumato cocaina durante la gravidanza? Chi fuma o chi consuma alcool può subire la stessa sorte? Come nota giustamente Sadhbh Walshe sul GuardianJacqueline Kennedy avrebbe potuto essere incriminata perché fumava durante la gravidanza? 

A questo si aggiunge anche una considerazione più “umana”, che viene fatta da Eve Tushnet su The American Conservative (che, come si capisce dal nome, non è certo il bollettino delle femministe): “La morte perinatale è un evento che può capitare a tutte le donne. Ma capita più spesso se sei povera. Più i pubblici ministeri sono rapidi nel farlo dipendere solo dalla negligenza, più donne povere verranno punite per qualcosa che è già una catastrofe in sé”.

Terza cosa: la volontà dello Stato di proteggere i bambini si trasforma in una forma di controllo e in una scelta politica. Negli ultimi anni, infatti, si sono moltiplicate le leggi che puniscono "l’omicidio" di feti. Attualmente sono in vigore in 38 stati americani.

 

La situazione del Mississippi

Ma facciamo un passo indietro, perché per capire la vicenda è necessario inquadrarla nella situazione del Mississippi. Si tratta dello Stato americano con il più alto tasso di mortalità infantile: 9 bambini morti ogni 1000 nati. La media degli Usa è del 5,2%, piuttosto alta rispetto a quella di altri paesi “sviluppati”: in Svizzera è del 3,8, in Uk del 4,5 e in Giappone del 2,17. Il tasso del Mississippi, commenta Meg Sullivan su brownpoliticalreview, ricorda quello del Botswana o dello Sri Lanka. 

A cosa è dovuto? A una combinazione di fattori: tra cui la povertà, condizioni insalubri di vita e bassa scolarizzazione.

A questo, sempre per contestualizzare, va aggiunta la storia particolare di Steven Hayne (lo ricordiamo, il medico legale che ha effettuato l’autopsia) che è stato accusato di aver falsificato le prove in diversi referti da un lato e, dall’altro, la storia del Mississippi, dove l’uso “creativo” di prove è un caso di studio. 

Radley Balko, un giornalista del Washington Post, che ha seguito sia il caso di Rennie che le vicende giudiziare di Hayne, scrive: “Quando un bambino muore in Mississippi, il procuratore dello stato è particolarmente determinato a che qualcuno vada in galera, anche se non ci sono abbastanza prove al riguardo”.

Le anti-fetal homicide laws

Tornando alle leggi “anti-fetal homicide”: si tratta di provvedimenti nati con lo scopo di proteggere le donne incinta dalla violenze che potevano subire e che potevano causare la morte del feto. Stiamo parlando di leggi, quindi, che tutelavano le donne da violenze di terzi.

Ora, nella lettura di Meg Sulivan, o anche di Nina Martin di Propublica, sono diventate strumenti contro le donne, forme di persecuzione giudiziaria che vanno a colpire soprattutto le afroamericane, che sono quelle che maggiormente consumano droghe e che non portano a termine la gravidanza. Il tasso di mortalità perinatale tra le donne di origini afroamericane in Usa è, infatti, il doppio di quello delle donne bianche. 

National Advocates for Pregnant Women (NAPW), una Ong americana, ha documentato centinaia di casi di donne arrestate per aver danneggiato il feto durante la gravidanza. Sono diversi, e Nina Martin ne ha riportati alcuni. 

C’è quello di una donna indiana che ha tentato il suicido mentre era incinta; una dello Iowa che è stata arrestata dopo essere caduta dalle scale e aver perso il bambino; o ancora, quello di una donna del New Jersey che ha rifiutato di firmare l’autorizzazione per un cesareo.

Le prime due donne sono state arrestate (e poi rilasciate), l’ultima ha perso la custodia dei figli.

Ciononostante, continua la Martin, la maggior parte delle accusate sono donne che hanno fatto uso di droga e nei cui casi vengono portate evidenze scientifiche che scientifiche non sono: il problema è che spesso si tratta di persone povere, il cui avvocato non ha né il tempo né le competenze per fare le ricerche giuste o per trovare testimoni competenti.

Sempre secondo la Sullivan queste politiche sono “flagranti attacchi contro l’autonomia del corpo femminile, in un processo di rafforzamento della volontà dello stato di proteggere il feto”. Inoltre queste politiche sono inefficaci. Secondo il College of Obstetrics and Gynecology’s Committee on Health Care for Underserved Women “l’incarcerazione o la minaccia della prigione hanno provato la loro inefficacia nella riduzione dell’abuso di droghe o alcol”: le donne che temono il sistema penale in realtà evitano, o diminuiscono, magari inconsapevolmente, le cure prenatali.

Il corpo della donna diventa quindi, ancora una volta, il campo di battaglia sul quale si combattono diverse guerre: quella contro l’uso di droga, quella per il diritto alla vita e quella della ricerca scientifica. 

 

Foto: Milan Nykodym/Flickr


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