Riccardo Rasman: un nuovo caso Aldrovandi

par Danilo Rota
martedì 6 novembre 2012

Trieste, venerdì 27 ottobre 2006. E' sera. Riccardo Rasman (34 anni, in cura presso un centro di salute mentale, in quanto affetto da “sindrome schizofrenica paranoide”) viene visto da alcuni condòmini sul balcone di casa, nudo, intento a masturbarsi e a lanciare grossi petardi, uno dei quali esplode vicino alla figlia del portiere del condominio (che sta camminando per strada in compagnia del proprio cane), provocandole una sospetta lesione del timpano.

Gli inquilini dello stabile contattano le forze dell'ordine. Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi - componenti gli equipaggi delle Volanti 3 e 4 della Questura di Trieste - intervengono. Rasman li minaccia di morte, nel caso in cui entrino nell'appartamento. Gli agenti si informano in maniera sufficiente del suo stato di salute mentale e attendono più di 20 minuti nel tentativo di convincere l'uomo ad aprire spontaneamente la porta.

Anche se Rasman interrompe il lancio di petardi, al suo reiterato rifiuto di aprire la porta e senza attendere le informazioni richieste alla centrale operativa, i poliziotti sono costretti ad abbattere la porta d'ingresso e a fare irruzione nell'appartamento insieme a una pattuglia di Vigili del Fuoco.

A questo punto Rasman li aggredisce (mettendo così in atto le pesanti minacce rivolte poco prima), scagliandosi contro di loro con una violenza inaudita e ingiustificata, cagionando agli stessi alcune lesioni. Ne nasce una colluttazione al cui termine gli agenti spingono a terra l'uomo, lo immobilizzano, lo ammanettano e lo costringono a rimanere in posizione prona sul pavimento. A questo punto gli agenti salgono alternativamente sulla sua schiena, esercitando con le ginocchia una notevole pressione. Rasman si dimena, scalcia, si lamenta, respira con affanno, sempre più lentamente, finchè le sue capacità respiratorie si riducono in maniera significativa. Dopo circa 5 minuti e mezzo in simili condizioni, muore per "asfissia da posizione" e conseguente arresto cardiaco.

In tutti i gradi di giudizio - Gip di Trieste (sentenza del 29 gennaio 2009), Corte d'appello di Trieste (sentenza del 30 giugno 2010) e Cassazione (sezione IV penale, sentenza 6 settembre 2012 n. 34137) - i tre poliziotti sono stati giudicati colpevoli di eccesso colposo nell’adempimento del dovere e nella legittima difesa e di cooperazione in omicidio colposo (esclusa la legittima difesa, sono gli stessi, identici reati addebitati ai quattro poliziotti assassini di Federico Aldrovandi).

Nonostante i tre poliziotti siano stati giudicati colposamente responsabili della morte di Riccardo, i giudici hanno scisso in due parti l'intervento degli agenti: il primo legittimo e doveroso, il secondo illegittimo e penalmente rilevante.


1) Fino all'ammanettamento di Rasman l'intera condotta dei poliziotti è stata del tutto corretta e legittima, poichè caratterizzata dall'adempimento del proprio dovere e dalla legittima difesa. Gli agenti hanno agito in stretto adempimento dei propri doveri sanciti dal Codice di Procedura Penale, al solo scopo di porre fine a una situazione pericolosa per l'incolumità di terzi e dello stesso Rasman, posta l'evidente pericolosità derivante dalla detenzione di esplosivi da parte di una persona affetta da patologie psichiatriche. 

I giudici, il responsabile del Pronto Soccorso dell'Ospedale di Trieste e il direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste sono concordi nel ritenere che, spettando soltanto ai poliziotti decidere come agire e non sussistendo protocolli o disposizioni operative applicabili nel caso specifico, sarebbe stato del tutto irrilevante e inutile attendere lumi dal servizio di salute mentale o l'arrivo di un infermiere. 

Pertanto, aver fatto irruzione nell'appartamento di Rasman, averlo bloccato a terra in posizione prona e averlo ammanettato sono azioni per le quali non può essere addebitato ai poliziotti alcun rimprovero penale. 

2) Dopo l'ammanettamento, i poliziotti hanno indebitamente protratto - senza alcuna necessità - la contenzione sul pavimento di Riccardo, in maniera tale da impedire la funzionalità dell'apparato respiratorio per molto tempo, nonostante l'uomo fosse stato immobilizzato a terra, prono, con gli arti superiori e in inferiori legati, sanguinante dalla bocca e dal naso. Condizioni in cui non poteva di certo nuocere. In ciò va riscontrato, da parte dei tre poliziotti, il superamento dei limiti dettati dall'adempimento dei propri doveri e dalla legittima difesa.

Dopo l'immobilizzazione e l'ammanettamento, gli agenti hanno proseguito a premere a terra Rasman, in posizione prona, per più di 5 minuti e mezzo. Per cercare di sedarlo - avendo dato vita a una robusta e duratura colluttazione - gli agenti lo hanno mantenuto compresso a terra in posizione prona, memori del fatto che - dopo aver allentato la presa al termine della lotta sul letto, convinti di averne vinto l'opposizione - l'uomo aveva ripreso a lottare, profittando del loro rilassamento.

Così operando, tuttavia, gli imputati hanno frainteso il dimenarsi di Rasman (accompagnato dal colare del sangue dalla testa alla bocca, da una respirazione affannosa e da rantoli e lamenti uditi persino dai vicini di casa) con il persistere di intenti ancora bellicosi dell'uomo, senza minimamente intuire il pericolo - assolutamente prevedibile - di asfissia, quale concreto rischio per l'incolumità di Rasman, evitabile rimettendolo in posizione supina o comunque allentando la compressione sul torace e sull'addome. 

Anche considerando il presunto rischio di ricevere eventuali pugni o calci una volta "allentata la presa" (ipotesi più astratta che reale), esso non avrebbe dovuto dissuadere i poliziotti dal far assumere all'ammanettato una posizione consona a permettergli di riprendere le normali funzioni respiratorie, in base al prioritario rilievo della salvaguardia dell'incolumità di colui che si trovi sottoposto al loro potere. Tutto ciò in nome del principio fondamentale secondo cui l'impiego della coercizione e della forza fisica da parte delle forze dell'ordine è legittimo e giustificato solo entro i tempi e i modi strettamente necessari per immobilizzare e ammanettare una persona, la quale - resa innocua - deve solo essere protetta. 

Quindi, i poliziotti hanno commesso un errore imperdonabile, poichè frutto di imperizia, colposa negligenza e macroscopica leggerezza per non essersi accertati - una volta definitivamente immobilizzato a terra Rasman, così posto in condizione di non nuocere - del pericolo per la sua incolumità derivante dall'impedimento alla funzionalità respiratoria che la perdurante compressione sul tronco e sull'addome aveva cagionato tanto da provocarne la cianosi del volto (pur riscontrata dal capo-pattuglia della Volante 1 chiamata a rinforzo quando ormai era troppo tardi per impedire l'esito fatale).

Non è infatti necessaria una scuola di polizia per intravedere la sussistenza di notevoli rischi per l'incolumità di un soggetto che venga costretto a terra in posizione prona, sotto la pressione esercitata sul dorso con le ginocchia o con il peso di altri individui. Gli esiti di simili atti (in generale e soprattutto nel caso specifico, date le sopra descritte condizioni) sono così facilmente prevedibili da potersi senza dubbio considerare dati rientranti nel patrimonio di conoscenza comune. Chiunque, infatti, sarebbe stato in grado di intuire l'elevata probabilità di provocare la morte di una persona alla quale - già in fortissimo debito di ossigeno dopo un ingente sforzo fisico sopportato nell'ingaggio di una lotta violenta - venga impedita la naturale funzionalità respiratoria, circostanza palesemente riscontrabile - nel caso di specie - dall'affannosa respirazione di Rasman da una parte e dai suoi continui lamenti dall'altra.

La sua morte va dunque posta in relazione causale con l'ammanettamento di un uomo in forte debito di energia (per aver aggredito gli agenti), sul cui dorso i poliziotti hanno continuato a esercitare pressione per circa 5 minuti e mezzo. Insomma, dopo il legittimo ammanettamento, gli agenti hanno innescato un processo asfittico che ha cagionato la morte di Rasman, morte assolutamente evitabile se gli agenti avessero interrotto l'attività di violenta contenzione a terra, consentendo all'uomo di respirare normalmente. Ovvero se avessero agito secondo il comune buon senso e le regole della comune esperienza umana.


P.S. I tre poliziotti responsabili della morte di Rasman (Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi) sono stati condannati in ogni grado di giudizio a una pena di soli 6 mesi di reclusione ciascuno (sospesa dalla condizionale) e al risarcimento dei danni. 

Se dopo il caso di Federico Aldrovandi (identico nello svolgimento dei fatti criminosi commessi da alcuni membri della Polizia di Stato) qualcuno pensava ancora che l'Italia fosse un Paese civile e uno Stato di diritto, ora dovrà necessariamente ricredersi.

 


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