Referendum: vi spiego perché è una farsa (e chi pagherà)

par Phastidio
martedì 7 giugno 2011

Le mille balle blu

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Con la misura e l’understatement britannico che lo contraddistinguono, Antonio Di Pietro declina a modo suo la strategia referendaria del centrosinistra. Che è quella di fingersi al di sopra delle miserie della quotidianità partitica. Perché “bisogna deberlusconizzare e dedipietrizzare i referendum”. Lasciate che gli elettori vengano a noi, in pratica.

Per rafforzare questo nuovo stile ecumenico, Di Pietro spiega perché anche gli elettori del centrodestra debbono poter votare si, serenamente e pacatamente:

«Perché non è che se uno è del centrodestra deve tenersi le centrali nucleari, devenon avere l’acqua se non ha i soldi per pagarla, oppure deve vedere che il suo vicino di casa stupra una bambina e non deve essere processato semplicemente perché magari è qualche persona importante all’interno delle istituzioni»

Argomentazioni inoppugnabili su esempi ineccepibili, come si nota. Un po’ come quelle sentite ieri sera a l’Infedele di Gad Lerner, per opera di ad esempio del leader della Fiom-Cgil, Maurizio Landini, e di Ilaria D’Amico.

Landini ha detto di considerare inaccettabile il fatto che si possa anche solo immaginare di far conseguire un profitto a dei privati sull’acqua. Aridaje. Quel famoso e famigerato 7 per cento non è un profitto, è la remunerazione del capitale investito. Qualsiasi studente di economia non particolarmente sveglio vi spiegherà che un investimento si finanzia con un mix di mezzi propri e debito, e che ognuna di queste due tipologie di fondi ha uno specifico costo. Si chiama costo medio ponderato del capitale (Weighted Average Cost of Capital, WACC), e se vi prendete la briga di guardare il bilancio di una utility quotata vedrete che il suo WACC si avvicina molto al tasso-soglia fissato in Italia per remunerazione degli investimenti idrici. Detto incidentalmente, fatevi spiegare a quanto ammonta il costo del solo capitale proprio utilizzando un modello di CAPM (Capital Asset Pricing Model), scoprirete che siamo nel regno della doppia cifra.

Ad esempio, i francesi di Veolia, che sono attivi nell’acqua, hanno un WACC del 6 per cento; i loro connazionali di Suez Environnement, una multiutility che si occupa di acqua e smaltimento rifiuti, sono al 6,7 per cento; gli inglesi di Northumbrian Waterstanno al 6,3 per cento. E’ più chiaro, ora? Questo è il costo del capitale di imprese che operano nel settore idrico in Europa, dato l’ambiente competitivo. Da qui emerge che il tasso italiano del 7 per cento non è stato scelto a capocchia, né rappresenta una forma di pericoloso sfruttamento del popolo assetato. Questi sono gli effetti, quando si ha un’opinione pubblica (ed una classe dirigente), che non sa leggere un bilancio e soprattutto di economia non capisce una mazza.

Come bene illustra, ad esempio, la posizione di Ilaria D’Amico, aspirante opinion makered altrettanto aspirante iconcina progressista da salotto. Che ieri, sempre da Lerner, ha interrotto un eroico e a tratti furiosamente depresso Oscar Giannino con una frase da scolpire nei divani:

«Comunque, quando ci sono di mezzo aziende private, le tariffe aumentano»

Da dove cominciare? Che se non aumentano le tariffe aumenteranno le tasse, ad esempio. Ma alla D’Amico, che forse sopravvalutiamo, ed alla sua audience di riferimento, forse sta bene “programmaticamente” che nel nostro futuro ci siano più tasse.

Ed ora parliamo del referendum. Di Di Pietro e dei suoi deliri abbiamo detto, di Bersani e dello squallido opportunismo che caratterizza la sua posizione pure, anche se mai abbastanza. La verità è che questi referendum sono stati dirottati da subito, come del resto accade a tutti i referendum, ma questa volta in modo ancora più disonesto del solito, a partire dalla posizione del si sull’acqua. Avere poi trasformato questi referendum nel tentativo di dare la spallata finale al capocomico di Arcore ed al pugile suonato di Gemonio è lecito e legittimo, nella dialettica politica di un paese che sta affondando ogni giorno che passa. Solo che non ci si rende conto che, anziché fare un discorso adulto all’elettorato, lo si considera esattamente come lo considera Berlusconi, cioè composto da minus habens. I governi si battono in Parlamento e nelle urne al momento delle elezioni, non nelle piazze o con referendum geneticamente modificati.

E quindi, che fare, per quanti sono stanchi di questa indecenza? Votare no è come votare si, perché contribuisce al raggiungimento del quorum. Ma è “morale” predicare l’astensionismo. La cosa ci costa moltissimo, essendo tra quanti si sono mangiati il fegato al tempo dei quattro referendum su quella sconcezza nota come legge 40, ma pare che non ci sia alternativa, per ripristinare un minimo di sanità mentale, e visto che l’istituto del referendum è fallito, e non da oggi. Ma da più parti questa posizione viene aspramente criticata. Per tutti, riportiamo il giudizio di una persona verso cui abbiamo massimo rispetto, stima ed affetto, Michele Boldrin, pronunciato nel corso di una lunga discussione a più voci sul suo Facebook, giorni addietro:

«L’uso strategico dell’istituto referendario, che tutti sembrano propugnare, per sottili fini di tattica politica è una delle mille aberrazioni che rendono l’Italia il paese senza speranza che è.

Tutti a predicare che occorre essere patrioti ed avere speranza. Poi, alla prima occasione in cui ci si potrebbe comportare normalmente, tutti a fare ricorso a tattiche da terzo mondo. Il trucco del far mancare il quorum (di craxi-delinquenzial memoria) mi sembra un perfetto esempio a questo proposito. Inutile riempirsi la bocca di liberal-democrazia, di regole, eccetera, per poi ricorrere a miseri trucchi da regime africano alla prima occasione»

Michele dimentica che l’”uso strategico dell’istituto referendario” è già nelle cose, e lo hanno iniziato i sostenitori del si, con i loro quesiti, ed ora prosegue con l’opportunismo dell’opposizione, massime del Pd, che vorremmo tanto vedere come la forza tranquilla che modernizza il paese e non come un grumo di movimentismo populista d’accatto. E quanto al paese senza speranza, perché assegnare questa valenza salvifica a referendum che neppure cambieranno il corso degli eventi specifici? Il nucleare ci sarà mai, in Italia? No. Con la vittoria del si sull’acqua avremo un effetto calmieratore delle tariffe e l’estromissione degli odiati privati? No. E quanto al legittimo impedimento, è stato già scardinato dalla Consulta, ma se volete rafforzare il concetto potete effettivamente votare si, anche nel caso in cui non sia stata stuprata alcuna bimba. Perché “costruire la speranza” con i referendum, che sono il trionfo dell’opportunismo e della bassa cucina politica, causa sempre forti cefalee al risveglio. Quindi, con grande amarezza che sconfina nella rabbia: a brigante, brigante e mezzo, ed astensione sia.

E riguardo alle forzature, una domanda per i legalitari di Repubblica ed anche per i nostri bravissimi “colleghi” del Fatto. Come avrebbero reagito se, in un universo parallelo, il neo-eletto presidente della Consulta si fosse presentato davanti a telecamere e taccuini per annunciare che i referendum non sono da fare, alla vigilia della camera di consiglio che deve decidere? Avrebbero parlato di sovversione, avrebbero chiesto la destituzione del neopresidente, che altro? Se si ama e difende la Costituzione, ed una cosa chiamata sobrietà istituzionale, occorre farlo ogni giorno, non a targhe alterne.

Per la chiusa ricorriamo ad un copiaincolla dal commento di Massimo Nicolazzi, pubblicato su Chicago Blog, che bene illustra il “disfunzionamento” dell’istituto referendario italiano, come tutti ben sappiamo:

«Poi vince il sì e Le fanno una leggina per cui la tariffa include il costo degli interessi sul debito contratto per la costruzione. Come dire che i referendum, come la storia dai tempi della responsabilità dei giudici e del finanziamento ai partiti insegna, servono a trasformare giuridicamente in zuppa il pan bagnato»

Ecco, sdegnatevi per questi esiti, almeno.


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