Referendum: ma se Renzi perde deve andarsene?

par Aldo Giannuli
venerdì 13 maggio 2016

Come si sa, Renzi ha annunciato che, nel caso di sconfitta al Referendum, si dimetterà ritirandosi dalla politica. Ora sembra ci stia ripensando perché nel ”Giglio magico” alcuni, preoccupati per le vicende giudiziarie, o per le amministrative che buttano male, o forse temendo che la promessa possa ingolosire troppo gli italiani, gli starebbero suggerendo di non insistere. Quindi, piano B, per il quale resterebbe al suo posto anche in caso di sconfitta ritenuta non più impossibile. Bene: ammettiamo che Renzi faccia finta di nulla o si faccia pregare di restare al suo posto e ci resti. E’ accettabile? E che costi politici avrebbe?
Questo avrebbe un costo di immagine elevatissimo sia nel partito (dove persino quella cosa inutile di Bersani alzerebbe la voce) sia nell’elettorato. Aggiungerebbe discredito alla sconfitta senza calcolare che la Corte Costituzionale dovrebbe pronunciarsi sull’Italicum ed una nuova sentenza di bocciatura metterebbe il governo in una condizione insostenibile.

Ma il problema più serio, in ogni caso (che Renzi insista a minacciare le dimissioni o no, che la Corte si pronunci sfavorevolmente sull’Italicum o no) è accettabile, sul piano della correttezza costituzionale, che Renzi non si dimetta?

Se il governo pone la fiducia su un provvedimento legislativo e una delle Camere gliela nega, le dimissioni sono un atto dovuto ed il governo non può far finta di nulla dicendo “Scherzavo”.

A maggior ragione questo è vero se la smentita viene dal corpo elettorale. Una permanenza in quel caso sarebbe intollerabile. Riflettiamo su come sono andate le cose, riassumendo il percorso che ci ha portati a questa situazione: le elezioni del febbraio 2013, grazie al premio di maggioranza previsto, davano la vittoria alla Camera alla coalizione di centro sinistra, ma non al Senato e lo stallo veniva superato con la trovata del governo di unità nazionale. Che però era cosa ben diversa da quella che gli elettori avevano votato, sia perché il Presidente del consiglio era persona diversa da quella indicata, sia perché la coalizione vincitrice si era sciolta con il passaggio di Sel all’opposizione, mentre il governo era il prodotto dell’alleanza Pd-Sc-Fi. E già questo fa sorgere dubbi sulla correttezza costituzionale di questa prassi.

A dicembre giungeva una sentenza della Corte che dichiarava incostituzionale il premio di maggioranza (per la sua entità) e l’elezione senza preferenze. Di fatto il Parlamento era delegittimato perché eletto su un presupposto non più esistente (quel dispositivo di legge). Infatti le sentenze della Corte dovrebbero produrre effetti anche retroattivi, in quanto non di annullamento si tratterebbe, ma di nullità assoluta, per cui gli effetti della legge dovrebbero cessare tam quam non esset. Però, per il principio della conservazione degli atti, il Parlamernto venne ritenuto formalmente legittimo per cui potette restare in carica. Si sarebbe potuto, però, provvedere alla nuova ripartizione dei seggi senza tener conto del premio di maggioranza, anche perché le procedure di verifica e proclamazione degli eletti non erano ancora perfezionate ed ultimate, ma, siccome una parte degli eletti era stata proclamata, non si poteva dichiarare nulla l’elezione di quelli che ancora non lo erano e che, per caso, erano ancora non proclamati. Il pasticcio venne risolto facendo prevalere nuovamente il principio della “conservazione degli atti” per cui il Parlamento restò nella composizione determinata dalla legge dichiarata incostituzionale.

E già qui si capisce come il testo costituzionale sia stato stiracchiato all’inverosimile per arrivare a questa soluzione. Ma, se, con molto sforzo, si poteva giustificare la sopravvivenza del Parlamento su un piano formale, sul piano della correttezza sostanziale, sarebbe stato necessario sciogliere le Camere, dopo gli adempimenti più urgenti, ed andare a votare al più presto. Ma il Presidente della Repubblica (l’inimitabile Giorgio Napolitano) ritenne che questo avrebbe causato ingovernabilità (chissà perché) e che invece occorresse rifare la legge elettorale e superare il bicameralismo, per cui alle elezioni si sarebbe andati dopo le riforme. Decisione opinabile ma, comunque, la Costituzione affida alla discrezionalità del Presidente la decisione sullo scioglimento anticipato delle Camere, per cui la cosa venne risolta in questo modo, mentre veniva insediato un comitato di saggi per la riforma della Costituzione, in assoluto contrasto con quanto previsto dall’art. 138, che però fece naufragio.

Poi vennero il governo Renzi (nuovo Presidente del Consiglio senza investitura popolare e con maggioranza nuovamente modificata), il patto del Nazareno, mentre, man mano, si produceva una ondata di scissioni in Forza Italia, di espulsioni nel M5s, di fatto si scioglieva Scelta Civica e c’erano alcuni abbandoni individuali nel Pd per cui un terzo dei parlamentari cambiava casacca. E senza contare gli avvisi di garanzia (per numero inferiori solo al periodo di Mani Pulite) e richieste di autorizzazioni all’arresto. Una situazione paradossale per la quale il Parlamento meno rappresentativo della storia repubblicana, eletto su una base incostituzionale e segnato da una grandinata di avvisi di reato, restava in carica e:
1.  eleggeva per ben due volte il Capo dello Stato


2.  eleggeva 5 giudici costituzionali
3.  eleggeva un terzo del Csm
4.  varava una riforma del sistema elettorale che, peraltro, riprendeva aggravandoli i difetti di costituzionalità riscontrati dalla Corte
5.  varava la più ampia riforma della Costituzione in 60 anni
6.  varava una serie di provvedimenti importantissimi (come quello sulla Banca d’Italia, quello sul job act eccetera)

Nessun Parlamento “normale” ha mai assunto tante decisioni di questa importanza. A rafforzare la posizione del governo, venivano le elezioni europee che, attribuendo quasi il 41% dei voti al Pd, creavano la sensazione che si fosse sanato il difetto di disrappresentatività della maggioranza parlamentare. Sensazione falsa perché si trattava di elezioni di diverso tipo e che segnavano sostanzialmente il passaggio degli elettori di centro al Pd, quel che non alterava il dato di fondo, inoltre, trattandosi di un fenomeno temporaneo, come dimostreranno le elezioni amministrative successive che segnalavano un calo medio del 6-7% del Pd.

In ogni caso, la legittimazione dell’esistenza di questo Parlamento era sostenuta dalla necessità di dargli il tempo necessario per attuare le riforme istituzionali. Ne deriverebbe che, con il referendum di conferma, il suo ruolo è esaurito comunque vadano le cose: se il referendum conferma la riforma, il processo si è compiuto e questo Parlamento non ha più nulla da fare, se, invece, la boccia, a maggior ragione il Parlamento deve essere sciolto e, per conseguenza, in ogni caso il governo decade.

In fondo, Renzi è stato il più onesto di tutti (mi costa ammetterlo, ma è così) dicendo che in caso di sconfitta si ritirerebbe dalla vita politica dimettendosi da tutti gli incarichi. Nella mia città di origine si usa dire: “Passasse l’Angelo e dicesse Amen”.

Magari lui non lo ha fatto per un atto di onestà intellettuale (cosa di cui non lo sospettiamo capace) ma per drammatizzare la consultazione e spingere a votare si, ma le intenzioni non contano. Quel che conta è che è l’unico ad aver capito che questo Parlamento non può sopravvivere al referendum come vada (e, infatti, la riserva mentale è con ogni evidenza quella di sciogliere le camere ed andare a votare in caso di vittoria).

Il punto è che succede se perde. Semplice: se ne deve andare e bisogna andare a votare (a parte scriveremo della legge elettorale). Ogni permanenza ulteriore sarebbe un abuso intollerabile ai limiti del colpo di Stato.

Aldo Giannuli


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