Referendum | Oltre il bicameralismo paritario

par Salvatore Bonfiglio
mercoledì 5 ottobre 2016

Durante l’iter di approvazione della legge di revisione costituzionale, il terreno di maggiore scontro è stato sulle modalità di elezione dei senatori. Oggi, con il formale avvio della campagna referendaria, è opportuno un maggiore approfondimento della questione.

Com’è noto, il superamento del bicameralismo paritario ha come prima conseguenza che a votare la fiducia (e la sfiducia) al Governo sia soltanto la Camera dei Deputati, ovverosia l’unica che, secondo la riforma, dovrà essere eletta a suffragio universale e diretto, con conseguente affermazione dell’effettività del principio democratico. Con la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie territoriali, come previsto dalla riforma, si valorizza un altro principio fondamentale: la promozione delle autonomie locali, art. 5 della Costituzione italiana. A differenza di quanto previsto dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America, però, gli ordinamenti democratici del secondo dopoguerra, che hanno confermato o adottato un assetto federale o regionale, prevedono che nella seconda Camera le autonomie territoriali siano rappresentate in rapporto alla rispettiva popolazione (non facendo, dunque, venir meno l’importanza del principio democratico). 

Nei sistemi parlamentari, in cui la seconda Camera è espressione delle autonomie territoriali, non è prevista l’elezione a suffragio universale e diretto. Così in Germania, in cui il Bundesrat è espressione degli esecutivi dei Länder, come in Austria, dove il Bundesrat è espressione delle Diete provinciali ( le assemblee legislative dei Länder). Anche in uno Stato unitario, come quello francese, il Sénat è eletto a suffragio indiretto e assicura la rappresentanza delle collettività territoriali.

In Italia, però, fino ad oggi la norma costituzionale, secondo cui il Senato «è eletto a base regionale», ha fatto della Regione una mera circoscrizione elettorale, ma nulla impedisce che questa formula costituzionale possa ora essere rivitalizzata, come prevede la legge di revisione costituzionale, attraverso la trasformazione del Senato in Camera a prevalente composizione regionale. In effetti, l’attuale assetto bicamerale non ha più alcuna ragion d’essere, tant’è vero che, soprattutto dopo la riforma del titolo V della Costituzione, con la legge costituzionale n. 3 del 2001, la dottrina costituzionalistica italiana ha molto approfondito il tema della trasformazione del Senato in una Camera delle autonomie territoriali. La riforma del 2001, infatti, non soddisfa le esigenze di raccordo e di cooperazione tra Stato e Regioni.

Anche da un’attenta analisi delle esperienze degli Stati federali e regionali emerge non soltanto l’intreccio di competenze fra i diversi livelli territoriali, ma anche la presenza di momenti di raccordo e di cooperazione, che vengono soddisfatti, innanzitutto, attraverso una Camera di rappresentanza degli enti territoriali di secondo livello. Viceversa, non ha più alcun senso concepire il Senato come “fotocopia” dell’altra Camera per garantire meglio la qualità della legislazione, perché quest’ultima dipende essenzialmente dalla tecnica legislativa e dalla valutazione sulla fattibilità delle leggi.

Se, con riferimento alla composizione della seconda Camera, c’è una palese stonatura nel testo (oltre la confermata e deviante utilizzazione delle parole “Senato” e “senatori”) questa va individuata nella previsione della nomina di 5 senatori da parte del Presidente della Repubblica. Questa non è certo una previsione coerente con la valorizzazione della rappresentanza territoriale. Come il bicameralismo voluto dal nostro Costituente, così anche il nuovo bicameralismo imperfetto è frutto di un compromesso tra le forze politiche. Ora, senza alcun pregiudizio, si può comunque ritenere accettabile la soluzione adottata, nella misura in cui, come è stato spesso auspicato, vi sarà anche una riforma del sistema delle Conferenze e, in particolare, della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza Unificata.

Meno problematico e più evidente è l’impatto positivo della riforma sulla dinamica della forma di governo parlamentare. Il bicameralismo paritario è stato spesso concausa di una maggiore instabilità governativa e ha favorito il fenomeno del transfughismo parlamentare, cioè dei passaggi dei parlamentari da un gruppo politico ad un altro. Nel 1994 il centrodestra vinse le elezioni alla Camera, ma non al Senato. Viceversa, nel 1996 il centrosinistra vinse al Senato, ma non alla Camera. Nel 2006, il secondo Governo Prodi aveva la maggioranza alla Camera, ma non al Senato, e, più di recente nel 2013 è accaduta la stessa cosa al PD guidato da Bersani. Oggi, il Governo Renzi necessita al Senato dei voti del gruppo del senatore Verdini, uscito da Forza Italia. Con la riforma, come già avviene in tutte le altre democrazie parlamentari, come si è detto, sarà la sola Camera dei deputati a votare la fiducia o la sfiducia al Governo.

Spesso si ricorda l’esperienza statunitense a difesa dell’attuale e anomalo assetto bicamerale del Parlamento italiano, ma l’esempio non è calzante. Infatti, se è vero che ci troviamo nel caso statunitense di fronte a un vero bicameralismo paritario, in quanto la Camera dei rappresentanti e il Senato hanno identica posizione e, con alcune eccezioni, identici poteri; è anche vero che al Senato statunitense spettano poteri speciali nel campo riservato al Presidente della Repubblica, perché l’intenzione del costituente americano era quella di fare del Senato una Camera di riflessione, non tanto dei poteri dell’altra Camera, quanto dei poteri del Presidente. In sostanza, il bicameralismo paritario è coerente con la forma di governo presidenziale statunitense, ma non con la forma di governo parlamentare degli Stati democratici, che, non a caso, hanno spesso adottato un parlamento a struttura monocamerale. Allora, ci si può chiedere se non fosse stato meglio prevedere nella riforma anche per l’Italia un Parlamento monocamerale. La risposta è contenuta, innanzitutto, nel già ricordato art. 5 e nell’art. 114 della Costituzione: la nostra non è una Repubblica statocentrica e la seconda Camera ha la sua ragion d’essere come momento di raccordo politico-legislativo tra lo Stato e le autonomie territoriali. 


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