Rappresentanza sindacale, perché Fiat non è un modello

par Phastidio
lunedì 3 gennaio 2011

 

Nel primo giorno di quotazione in borsa della Fiat “una e bina”, con la SpA dell’auto e Fiat Industrial, che aggrega i veicoli industriali Iveco ed i trattori di Case New Holland, e mentre Sergio Marchionne manda a stendere quanti (primo fra tutti il Partito democratico ed il suo responsabile economico, Stefano Fassina) chiedono di conoscere tempistica e modalità del famoso investimento da 20 miliardi per “Fabbrica Italia”, prosegue il dibattito sulla “svolta” di Corso Marconi nelle relazioni industriali.

Emerge, ad esempio, (anche da fonti insospettabili) che la politica è stata finora del tutto assente, anche se i soliti noti stanno tentando di mettere il cappello sull’accordo tra Marchionne e sindacati (senza Fiom), circostanza che non ci stupisce. Al crescere della complessità del mondo, i nostri eletti preferiscono mettere la firma su soluzioni preconfezionate dai player dei settori coinvolti, magari dopo aver verificato (e quantificato) l’esistenza del proprio tornaconto.

Data questa premessa, quindi, e data anche la formidabile domanda di semplificazione e semplicismo di cui i poteri più o meno forti necessitano, non siamo stupiti neppure dalla grancassa con la quale alcuni giornali stanno affrontando la questione-Fiat: lasciate lavorare Marchionne, ché è l’uomo che ci guiderà nella modernità (un altro). Non ponetevi domande, cari cittadini, altrimenti verrete bollati di disfattismo e comunismo, e troverete sempre sulla vostra strada il comunicato vergato dal ditino del Capezzone di turno.

Di fronte a questo tentativo di silenziare non tanto il dissenso quanto proprio la possibilità di capire quello che sta accadendo, segnaliamo quindi con piacere il commento di Dario Di Vico sul Corriere di oggi. Siamo tutti d’accordo che il “modello Marchionne” schiaccia la rappresentanza, prevedendo (con una lettura assai forzata dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori) la nomina dei rappresentanti sindacali e non la loro elezione da parte dei lavoratori, “come avviene oggi in politica con il Porcellum”, per usare la comparazione di Di Vico? Si, lo siamo. Siamo altrettanto d’accordo che servirebbe un’azione per contemperare la sostanza dell’accordo (il recupero di produttività, l’abbattimento della conflittualità) con la tutela della rappresentanza, “che è sorella della democrazia”? Anche qui, diremmo di essere d’accordo. E quindi?

Quindi servirebbe un negoziato tra parti sociali per ridisegnare il sistema in modo più funzionale alle nuove sfide, e dare attuazione (diciamolo ad nauseam) all’articolo 39 della Costituzione. Si potrebbe ad esempio partire dal disegno di legge 1872, presentato nel 2009 da 55 senatori del Parito democratico, primo firmatario Pietro Ichino, che prevede tra le altre cose

«(…) un assetto nel quale il contratto collettivo nazionale continua ad applicarsi a tutte le aziende del settore, ma soltanto se non vi sia un contratto aziendale stipulato da una coalizione sindacale che abbia la maggioranza dei consensi nell’impresa interessata. Contiene poi una definizione precisa dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati; sancisce il potere della coalizione sindacale maggioritaria di negoziare il piano industriale a 360 gradi, compresa la clausola di tregua che impegna a non scioperare contro il contratto stesso, con effetti vincolanti per tutti i dipendenti dell’azienda. Alla minoranza sindacale, a cui in questo modo viene tolto il potere di veto, viene però garantito il diritto alla rappresentanza riconosciuta in azienda, anche quando non abbia firmato il contratto: ciò che la legge oggi vigente non garantisce»

In tal modo si conseguirebbe l’obiettivo di spostare il baricentro della contrattazione collettiva dal nazionale all’aziendale, garantendo rappresentanza alle minoranze sindacali ma senza dotarle del potere di veto e ricatto di cui oggi dispongono. Questa proposta potrebbe rappresentare l’ipotesi di lavoro dell’ipotetico e virtuoso accordo interconfederale. Certo, ciò potrebbe avvenire se vi fosse volontà di progettare il futuro, anziché subirlo. E se non vi fossero, nel governo, soggetti che sono sufficientemente ottusi e politicamente ciechi da ricercare solo la messa all’angolo del sindacato maggiormente rappresentativo, la sua radicalizzazione ed il suo annientamento. Come se questo esito risolvesse i problemi, anziché aggravarli.

Temiamo però che il tempo della “progettazione” sia scaduto, con Fiat che avanza a tappe forzate verso il proprio disegno (qualunque esso sia), mentre tiene sotto scacco Confindustria con l’ipotesi di restare fuori dall’associazione degli imprenditori anche quando le bocce si saranno fermate. In questo modo, anche se volesse, Emma Marcegaglia difficilmente potrebbe avviare un tavolo di concertazione con i sindacati per ridisegnare le regole della rappresentanza sindacale.

E’ stata persa una grande occasione, ma non oggi: da alcuni anni. Ora il treno (anzi, l’auto) Fiat è in corsa, e l’eventuale fallimento del progetto Fabbrica Italia fornirebbe argomenti agli estremisti dei due schieramenti, quello imprenditoriale (a cui si aggancerebbe l’ectoplasmatico e parolaio governo di centrodestra), e quello sindacale estremo, che risucchierebbe con sé anche la sinistra politica, in un fatale processo di vendolizzazione.


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