Quell’incomprensibile calcio alle infrastrutture portuali

par Pietro Orsatti
mercoledì 29 luglio 2009

Lo denunciano Cgil, Cisl e Uil: il governo ha deciso di tagliare fondi e investimenti ai porti italiani, una delle risorse dell’economia nazionale. È una scelta che va in senso contrario a quanto fa il resto d’Europa, dove si aiuta il settore per giungere preparati alla fase successiva della crisi economica. Trieste e Genova nella ghigliottina, mentre le compagnie portuali rischiano il fallimento e il traffico merci va in tilt.

Era l’élite della classe operaia. I lavoratori portuali italiani fra gli anni Sessanta e Settanta rappresentavano la punta di diamante di un mondo, quello del lavoro, in piena trasformazione. E sono stati, con l’arrivo della concertazione e con la stretta delle privatizzazioni, una delle categorie più danneggiate, che ha subito conseguenze ben più profonde e gravi di tante altre. E soprattutto prima. In particolare a “crollare” è stato l’insieme delle compagnie portuali, passate da soggetti collettivi di lavoro di natura prettamente pubblica a imprese a tutti gli effetti.
E soggette a norme, vincoli e liberalizzazioni che ne hanno totalmente snaturato sia la funzione (quella del servizio di “banchina pubblica”, ovvero servizio di carico e scarico delle merci in un porto non privatizzato) sia quella “istituzionale” passando da soggetto di mutuo soccorso fra lavoratori a imprese (Cooperative Spa). Per capire quanto sia stata profonda questa trasformazione basti pensare che la più grande delle compagnie italiane, quella di Genova, è passata dall’inizio degli anni Novanta a oggi da 6.000 a 1.000 lavoratori.
 
Un taglio enorme, che non è stato dovuto solo all’ingresso in porto della tecnologia legata al container e ai sistemi integrati di trasporto merci ma è frutto di un depotenziamento strategico voluto e perseguito dai governi che si sono succeduti in questi venti anni. E andiamo all’attualità di oggi, che dimostra proprio quanto sia elevato il disinteresse della politica e del sistema Paese verso la logistica portuale. «Di fronte a una condizione di crisi così pesante come quella attuale, invece che immettere risorse il governo sottrae quelle già destinate».
 
Lo denunciano Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti a seguito di un emendamento al decreto legge 78/2009 con i provvedimenti anticrisi, in fase di conversione, che secondo le federazioni dei trasporti di Cgil, Cisl e Uil «priva i porti in grave crisi di 50 milioni». E a fare da “spalla” politica alla denuncia del sindacato arriva anche il deputato piddino Ettore Rosato che ricorda come «con la finanziaria del 2007 il governo Prodi aveva fatto un grande sforzo, autorizzando un contributo di 100 milioni per interventi concernenti i porti con connotazioni di hub portuali (cioè movimentazione merci) di interesse nazionale, nonché per il potenziamento dei servizi mediante interventi finalizzati allo sviluppo dell’intermodalità e delle attività di transhipment ».
 
Secondo Rosato: «In questo momento, decidere di tagliare proprio quelle risorse, privando i porti dei mezzi necessari a sostenere le sfide internazionali significa non cogliere l’importanza strategica del volano rappresentato dalle infrastrutture portuali. Fronteggiare la crisi non significa tamponare qua e là le falle con provvedimenti che si limitano a spostare risorse ma richiede una seria politica di investimenti e incentivi con cui sostenere il rilancio dell’economia reale».
 
Sorvolando su quante volte in passato il centrosinistra si sia defilato dall’affrontare la crisi della portualità, ancor prima della stretta causata dalla crisi economica e finanziaria globale, cerchiamo di capire quanto sia reale e consistente quest’impatto delle difficoltà del commercio internazionale sull’ambito della logistica italiana. La parola magica è 30%. Da novembre ad aprile il calo del trasporto di merci nei nostri mari e di conseguenza delle attività portuali ha avuto una flessione del 30%.
 
Le ragioni sono imputabili sia alla crisi economica, ovviamente, sia all’aggressività dei nostri concorrenti nel Mediterraneo, anche questo è un fatto certo, basti guardare i risultati dell’ultimo anno del terminalista sloveno Luka Koper, ma è un dato di fatto che la portualità italiana è andata in crisi ben prima del crack finanziario. E che si tratta di una crisi strutturale e impiantistica e non “stagionale”. E mentre in tutta Europa ci si attrezza e si aiuta il settore, per la fase successiva alle conseguenze del crollo economico, in Italia si tagliano le già esigue risorse individuate dal governo precedente.
 
Dietro questo depotenziamento e apparente disinteresse tradottosi in ulteriori tagli ai porti italiani, emerge invece una strategia politica ed economica. Non siamo davanti a sottovalutazioni e incompetenze, quindi, ma a un “affare” vero e proprio. Esiste, ormai è evidente, un progetto per trasformare Genova e Trieste in porti corridoio verso l’Europa centrale e settentrionale. Sponsorizzata, la strategia, dal presidente dell’Authority di Genova Luigi Merlo e da un gruppo non ancora ben chiaro di grandi imprenditori italiani (e non).
 


Un progetto recepito da una parte del governo e infilato con puntualità nel Dpef. Il progetto per rilanciare i due hub prevede di fatto la chiusura delle due Autorità portuali (Genova e Trieste) e la nomina di commissari in sostituzione dei presidenti. Notare bene: commissari. In piena sintonia con strategia dell’attuale governo del risolvere tutte le questioni più spinose a colpi di commissariamenti e di gestione straordinaria in deroga. Bertolaso insegna.
 
 
Le contraddizioni tra Pdl e Lega
 
Ma c’è qualcosa di strano in questa ultima uscita della maggioranza sulla vicenda porti. Il fronte Pdl-Lega sembra, anche qui, tutt’altro che compatto. Infatti, nelle stesse ore in cui il progetto vedeva la luce nel Dpef, il presidente della Commissione trasporti del Senato, Luigi Grillo, presentava il testo di riforma della legge 84/94 (la legge di riferimento sui porti), che non cita affatto un sistema di porti corridoio. Rimane però la certezza che il centrodestra ha deciso di mettere le mani su quel che resta dei porti italiani.
 
E che c’è chi sta per fare grandi affari dopo un decennio di depotenziamento e “svalutazione” forzata del patrimonio dei moli italiani. Come si traduce tutto questo “movimento” di colletti bianchi sui lavoratori portuali? In uno svuotamento ulteriore. Il salario del portuale, a eccezione dei dipendenti diretti dei terminalisti, è fondato da una quota fissa e da una sorta di “cottimo” legato alla merce (tipologia e quantità).
 
E i lavoratori delle compagnie portuali intervengono sui picchi di lavoro, quindi quando c’è un alto flusso di merci si chiamano lavoratori dal bacino di braccia fornito dalle compagnie o dalle cooperative similari (come quelle presenti nel porto di Trieste). Davanti a un crollo verticale dei traffici ci si trova davanti a una crisi sia occupazionale che “imprenditoriale” (considerando le Compagnie delle imprese a tutti gli effetti) senza pari. Da qui l’integrazione del salario grazie alla cassa integrazione ordinaria (e straordinaria).
 
Un sistema che sta mandando letteralmente in fallimento l’insieme delle compagnie portuali italiane, favorendo i terminalisti e gli armatori a discapito di quel poco di pubblico che rimane e la creazione di hub portuali sottratti integralmente al governo pubblico. Per fare un esempio la Compagnia di Trieste, ormai residuale, è attualmente commissariata e in vendita e, ovviamente, chi sta cercando di acquistarla (o meglio di acquistare l’autorizzazione al lavoro in banchina previsto dall’articolo 17 della legge 84/94) sono i terminalisti/armatori che così, proprio grazie a questa autorizzazione, non avrebbero più bisogno di rivolgersi esternamente (con costi aggiuntivi) per far fronte ad eventuali picchi di lavoro.
 
Ma la crisi è solo italiana? No. Tutto il sistema portuale, legato ai traffici delle merci, è entrato in crisi. Licenziamenti, chiusure, imprese che falliscono si segnalano in tutto il mondo. Il 30/35 per cento di contrazione nel commercio in meno di un anno ha colpito duramente il sistema cinese e quello indiano (si parla di decine di migliaia di posti di lavoro persi in meno tre mesi da gennaio a marzo in India), anche gli Usa stanno entrando in crisi (con una riduzione di quasi il 50 per cento dei traffici ferroviari di container e il blocco sostanziale degli snodi ferroviari nelle città portuali), stesso dicasi per i porti atlantici europei e quelli mediterranei di Spagna, Francia e Grecia.
 
La differenza fra Italia e resto del mondo è che, mentre in Italia si taglia e si depotenzia da anni, altrove si è investito sia in infrastrutture sia in tecnologia e che quindi il sistema, ben integrato con gli altri settori della logistica (aerei, ferrovie, sistemi viari), al termine della contrazione finanziaria ed economica, sarà in grado velocemente di mettersi al lavoro, mentre in Italia, probabilmente, ci troveremo a speculare sugli enormi patrimoni potenzialmente edificabili di enormi aree portuali abbandonate e dequalificate. Non sembra proprio, la nostra, una strategia da Paese del G8.


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