Quel ceto politico irresponsabile. Torniamo noi, ora, a fare politica di sinistra

par Pietro Orsatti
lunedì 13 maggio 2013

Siamo davanti a qualcosa di più grave e profondo di una sconfitta elettorale. Stiamo assistendo all’implosione e al dissolvimento delle forze politiche che hanno occupato gli spazi di rappresentanza della sinistra italiana. E questo avviene nel momento di massimo accuirsi della crisi economica, sociale e culturale che abbia mai attraversato il nostro paese da decenni.

Le responsabilità di quello che è avvenuto vanno ricercate tutte all’interno dei partiti piccoli e grandi della sinistra e in particolare in quel ceto politico inamovibile nato, poi aggrappatosi a una presunzione di potere, a cavallo di Tangentopoli. Una crisi generazionale? Non solo. Anche perché le nuove leve che hanno scalato o sono state cooptate negli attuali gruppi dirigenti sia del Pd che di Sel o degli altri micro oggetti partito “a sinistra”, non hanno portato nelle proprie formule di rappresentanza e nelle istituzioni alcuna novità sostanziale – e nessuna differenza strategica dalla destra – riproducendo invece tutti gli antichi vizi di quelli che volevano pretestuosamente sostituire. Se il rottamatore è figlio e allievo del rottamato non ha senso parlare di un cambiamento possibile. Perché non basta differenziarsi attraverso facili semplificazioni linguistiche quando si sono persi di vista i valori e soprattutto quando la lotta politica viene sostituita da furbesche operazioni pubblicitarie.

Il paese tutto è vittima del berlusconismo. Ma la subcultura furba e distorta di Berlusconi ha avuto nella sua affermazione un complice - forse inconsapevole ma attivissimo - in tutti i partiti e le organizzazioni della sinistra. Il ceto politico.

Eppure un’idea di sinistra diffusa rimane, ma non ha alcuna rappresentanza nelle organizzazioni e chi si attiva – ormai esclusivamente in maniera autonoma – non incide nelle scelte dei gruppi dirigenti, non conquista spazi, non riesce a riportate al centro dell’azione politica i valori di essere sinistra scalzando le abitudini meramente tattiche del club dei manovratori.

Ripeto. Questo vale, e tanto, per il Pd come per tutte le forze della sinistra nessuna esclusa.

Sordità e autoreferenzialità. Opportunismo e inopportuno snobismo. Irresponsabilità e vigliaccheria. Queste le caratteristiche più smaccatamente suicide del ceto politico della sinistra italiana, che ha abbandonato la radicalità e l’elaborazione culturale e politica per imboccare la più semplice strada del logoramento valoriale e della semplificazione, dell’accordo al ribasso e dell’annacquamento del valore propulsivo del conflitto.

Parole vecchie. Lo so. Ma se il nuovo è vuoto, se la politica ha dismesso le parole oltre alle idee, è necessario ripartire dai linguaggi complessi e concreti del passato. Perché prima di tutto è dalla concretezza delle idee, dei bisogni e delle speranze che dobbiamo partire. Dai luoghi comuni. Dalla comunità diffusa.
Partire. Non ri-partire. Perché non c’è più nulla. Non è finita un’esperienza, si è spento un intero mondo.
Ho trovato raccapricciante la reazione dei gruppi dirigenti di tutte le forze di centro sinistra e sinistra. Non sono bastati i circa 4 milioni di elettori progressisti che non hanno votato per protesta e nemmeno gli altri due milioni e mezzo se non tre elettori di sinistra che sempre per protesta hanno scelto di dare il loro voto al M5S. Tutti, nessuno escluso, hanno puntato all’autoconservazione dei gruppi dirigenti e delle organizzazioni. Chi con cinismo travestito da responsabilità (il Pd), chi rilanciando una mobilitazione old style senza mettere in discussione persone e scelte e strategie (Sel). Nessuno ha preso atto del disastro che ha causato in questo anni e ha fatto un passo indietro aprendo le porte alle forze, alle idee e persone che per decenni hanno tenuto scientificamente fuori da ogni sede di elaborazione e decisione.

E ora queste forze, persone e idee devono trovare un modo autonomo e concreto per forzare la mano e scalzare questi gruppi dirigenti nel loro complesso impresentabili e pericolosi. E riprendere, dal basso e dall’elaborazione di nuove formule di rappresentanza, quegli spazi che gli competono. Che sono la politica. Che si conquistano facendo politica. Da sinistra. Di sinistra. Una sinistra diffusa e maggioritaria nel paese che è stata per anni umiliata e esclusa da ristrette élite (fra l’altro miserabili sul piano culturale) autoreferenziali e inamovibili.

Non basta occupypd, non bastano i cantieri di Sel, non basta la responsabilità presunta, non bastano i pontieri presi in prestito dalle esperienze sindacali, non bastano brave persone come Rodotà. Tutto questo non basta e serve solo a dare ancora un po’ di continuità a questo disastroso ceto politico.

Siamo noi direttamente a dovercene fare carico. Noi, quelli di sinistra, quelli che hanno resistito al berlusconismo, al peggior centro sinistra d’Europa, alla crisi economica e sociale, allo svilimento etico della società, all’andreottismo d’accatto, all’arroganza di una Finocchiaro o a quella di un tweet di Renzi. Noi che ci siamo buscati le narrazioni di Vendola (caro Nichi, ti voglio un bene dell’anima ma non se ne può più). Noi che qui tiriamo avanti.

Si, noi. Che dobbiamo tornare a fare politica. In prima persona. Ora. Fosse solo per una questione di dignità.

Nella foto: Movimento antinucleare a Montalto di Castro


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