Quei depistaggi nei processi per strage da parte di "uomini dello Stato"

par Antonio Moscato
lunedì 21 maggio 2012

Ovviamente non so chi è stato a mettere l’insolito e tremendo ordigno alla scuola di Brindisi. Né è compito mio trovarlo. (Per un’analisi puntuale delle contraddizioni delle interpretazioni prevalenti, rinvio al ben documentato articolo di Aldo Giannuli).

Ma una domanda posso farmela, comunque, sfuggendo alla mielosa retorica traboccante dai media: a che serve il poderoso e costoso apparato militare e di “intelligence” (così si chiama, a prescindere da quel che fa e dalla sua efficienza), che va a “proteggere i civili” a Kabul (così dicono) ma non riesce a fermare un attentato come quello di Brindisi?

Perfino il sobrio “Sole 24 ore” ha concluso le pagine dedicate all’attentato ricostruendo la protezione accordata agli esecutori delle stragi in cui perirono i migliori magistrati, a partire da Falcone, a cui era stato fatto capire che “non doveva occuparsi d’altro che di mafia militare, e lasciar perdere le indagini sui colletti bianchi”. L’articolo di Giuseppe Oddo, che occupa quasi un’intera pagina, conclude che “diversi fatti avvalorano la tesi dei mandanti occulti dietro Capaci e via D’Amelio”. Anche per Rocco Chinnici, precisa il procuratore Roberto Scarpinato, “l’ordine di ucciderlo era venuto dal mondo superiore dei colletti bianchi e cioè dai cugini Salvo”.Famosi esattori delle imposte, democristiani doc.

Parlare di inefficienza dei servizi è già troppo benevolo: sono noti i legami dei servizi e dei corpi speciali con la destra estrema, e non è difficile pensare male. Avevo già accennato in Mercenari e dintorni e in I nostri bravi ragazzi sparano ai legami con l’ultradestra fanatica di almeno uno dei due marò detenuti in Kerala, che se fosse stato a piede libero avrebbe partecipato come candidato alla lista Cito in lizza a Taranto per il comune. Ci sono i tanti precedenti accertati per il Battaglione San Marco o la Folgore. Ma viene fuori inoltre che non è un male solo italiano, ma si riscontra in diversi paesi d’Europa. In Grecia poi si è scoperto che oltre il 50% dei voti delle caserme della polizia antisommossa il 6 maggio sono andati ai neonazisti di “Alba dorata". Ecco perché pestavano duro volentieri chi osava protestare…

Comunque in Italia, in decine di occasioni, si è scoperto che alti ufficiali dei carabinieri seminavano falsi indizi per depistare gli inquirenti seri. E quelli che fanno così, fanno rapidamente carriera: ricordate l’accanimento dei carabinieri nel proteggere Tano Badalamenti, seguendo ostinatamente e in totale malafede la pista di un Peppino Impastato “terrorista” saltato in aria per un incidente sul lavoro?

A far questo non era stato un oscuro sottufficiale, ma l’allora maggiore Antonio Subranni. Costui è diventato poi generale di Corpo d’Armata, e comandante dei ROS. Ma alla fine è stato poi indagato dalla Direzione antimafia di Palermo per concorso in associazione mafiosa, e per favoreggiamento della latitanza del boss Bernardo Provenzano, nel quadro del processo a carico del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu in corso innanzi al Tribunale di Palermo. Lieto fine? Macché: il gip di Caltanissetta Francesco Lauricella, accogliendo la richiesta della procura, ha archiviato tre giorni fa l'indagine per concorso in associazione mafiosa.

Allora non c’entra niente? No, ha chiesto l'archiviazione solo perche' sono scaduti i termini massimi previsti dalla legge per le indagini preliminari. Come accade regolarmente per tutti i potenti, Andreotti insegna. Per giunta, nel governo Berlusconi, quando al ministero della Giustizia era stato collocato l’incredibile Alfano, docile burattino nelle mani di Berlusconi, il ministro come primo gesto nominò la figlia di Antonio Subranni, Danila, capo dell’ufficio stampa del ministero e sua portavoce. Chissà chi gliel’aveva suggerita… Anche il figlio del generale, Ennio Subranni, d’altra parte, ricopre un ruolo chiave al Roc (reclutamento operativo centrale dei servizi segreti). Stiamo proprio tranquilli!

Antonio Subranni era stato coinvolto nell'inchiesta sulla strage di via D'Amelio, ma anche indagato per i numerosi depistaggi durante le indagini sull'assassinio di Peppino Impastato, riaperte quando si era casualmente scoperto che la principale testimone del delitto, Provvidenza Vitale, la casellante del passaggio al livello di Cinisi, non era scomparsa nel nulla o trasferita negli Stati Uniti come assicuravano i rapporti di Subranni. Anzi non si era mai allontanata da casa sua: aveva fatto sei figli, e ha anche un genero carabiniere. Ironia della sorte, Provvidenza Vitale non abita neanche lontano da quel tratto di ferrovia dove Peppino Impastato fu fatto saltare in aria, la sera del 9 maggio 1978, da un gruppo di sicari di Cosa nostra rimasti senza nome. Naturalmente la donna, che ha 85 anni, quando è stata interrogata a casa sua dal pm Francesco Del Bene ha fatto mettere a verbale: "Ho ricordi vaghi di quella sera".

D’altra parte non aveva contato nulla che Agnese Borsellino, vedova del giudice, avesse raccontato che il marito poco prima di essere ucciso le aveva detto: "Ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu" (affiliato alla mafia). Non è stata accettata la sua testimonianza, perché tardiva. Lo credo che costoro non ci proteggono: si proteggono solo tra di loro!

Non voglio però accettare nemmeno contro questi infami la logica del linciaggio, del “mettiamoli dentro e buttiamo la chiave”. Ma una cosa si potebbe fare: una legge semplice semplice che stabilisca che i termini di prescrizione non possano essere applicati a chi ha insabbiato un’inchiesta o fornito elementi falsi atti a depistare altri inquirenti non collusi.

C’è una logica: gli insabbiamenti e i depistaggi servono appunto a far finire in prescrizione i reati allungando i processi. E quando non si possono condannare i colpevoli perché sono state distrutte le prove (dalla sparizione delle borse con gli ordigni inesplosi il 12 dicembre 1969, alla rottamazione dell’auto servita per uccidere il commissario Calabresi, ecc. ecc.), sarebbe logico condannare chi è responsabile di queste azioni in quanto complice del delitto di cui ha protetto gli esecutori materiali. D’altra parte perché lo avrebbe dovuto fare, se non per tutelare suoi collaboratori o almeno persone di cui condivideva le idee?


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