Quattro chiacchiere sul CJ con Franco Bomprezzi
par Patrizia Dall’Occa
venerdì 23 gennaio 2009
Con immensa emozione, con meraviglia per l’amicizia e la disponibilità, con orecchio attento alle parole, con fiducia per le parole espresse, inizia questo breve scambio di opinioni con Franco Bomprezzi. Lascio che sia lui a dirci chi è.
Ciao Franco e grazie per la tua disponibilità
Questa intervista ha come soggetto il Citizen Journalism, nuova realtà che si sta affacciando prepotentemente nel panorama del giornalismo nazionale e non solo. Tu hai una carriera alle spalle indescrivibile. Ti va di parlare un po’ dei tuoi inizi e di come hai affrontato il tuo percorso?
“Ho iniziato con molta incoscienza, ma con tanta voglia di scrivere. Ero consigliere comunale a Padova, assai giovane, fra il 1975 e il 1980, quando un giornalista del Resto del Carlino, Pierluigi Visci, allora giovane cronista, ora direttore di QN, mi propose di provare a raccontare le sedute del consiglio comunale in modo obiettivo e accattivante, prescindendo dunque dalla mia collocazione politica. Lui il giorno dopo rivedeva i miei pezzi, li sistemava (assai poco) e li pubblicava. Ho iniziato così, per gioco, nel 1976, collaborando alla redazione padovana del Resto del Carlino, avevo 23 anni. Partendo dalla “bianca”, ma occupandomi poi anche di cronaca nera, giudiziaria, sport, sociale, ma quasi mai di handicap, perché ritenevo che il fatto di essere io in sedia a rotelle non avrebbe dovuto mai condizionare la mia attività giornalistica, volevo in qualche modo emanciparmi. Ricordo che facevo al capocronista l’esempio delle donne: non ritenevo giusto che solo le donne, nelle redazioni, si dovessero occupare di temi al femminile. Cosi per la disabilità. Ovviamente ho sempre cercato di educare i colleghi ad un corretto approccio con i temi del volontariato e del sociale, e dell’handicap in particolare,ma sempre alla pari, da collega senza aggettivi”.
La voglia di notizie nuove, fresche, "reali" ha spinto molte persone a cercare un canale alternativo basato sulla libera espressione. Credi che ci sia davvero questa esigenza? Le notizie sono così filtrate e poco rappresentanti l’opinione pubblica da creare questa necessità?
“Penso che la verità stia nel mezzo. E anche questo è un doppio senso. Nel mezzo, nel senso che non è del tutto vero che il giornalismo tradizionale, professionale, sia morto e sepolto, anzi, leggo volentieri pezzi e inchieste di notevole valore, che sono possibili solo se alle spalle c’è un metodo, un’organizzazione, un’esperienza adeguati e anche una responsabilità legale precisa. Ma nel mezzo anche perché il mezzo telematico ha messo tutti in condizione di competere, con le parole e con le immagini, fornendo informazioni fresche, di prima mano, apparentemente senza costi giganteschi. E’ dunque il mezzo a provocare questa rivoluzione giornalistica appena agli inizi”.
Agoravox, in questo panorama, si presenta come una valida risposta alle molteplici richieste di un’altra opinione al di furi delle notizie imposte. Mantenendosi il più possibile coerente con la realtà e basandosi su un’etica forte, presenta le notizie da parte del cittadino. Come valuti questa esperienza? La libertà d’opinione e di espressione è stata la base della libertà di stampa. E’ possibile che questa esperienza risulti utile ai Giornalisti per ricordarsi il perché della loro scelta lavorativa?
“Agoravox mi sembra un eccellente punto di equilibrio proprio rispetto alle riflessioni che facevo prima. Giornalismo vero, dalla parte del cittadino, con un filtro di valutazione attenta, che non è censura. I giornalisti penso sappiano bene perché fanno questo mestiere, il problema a volte è ricordarlo agli editori, e ora ai direttori, che sono quasi sempre direttori-editori e non garanti della redazione, come dovrebbe essere”.
Ritieni che il giornalismo stia in qualche modo perdendo la sua caratteristica di "missione" divenendo semplicemente "un lavoro"?
“Io credo che il giornalismo debba essere prima di tutto un onesto lavoro. Fatto bene, con serietà, rigore, curiosità intellettuale, atteggiamento aperto e critico, memoria, abnegazione, pignoleria per i dettagli, per i nomi, per le fonti, per i precedenti, per i lettori… Se questo significa che è una missione, non lo so. Ho sempre una certa ritrosia ad attribuire valore morale a un lavoro, perché si rischia in ogni caso di essere autoreferenziali”.
Il confrontarsi con la volontà popolare può essere uno sprone per migliorare e migliorarsi?
“Per un buon giornalismo non credo che sia fondamentale confrontarsi con la volontà popolare, perché, ad esempio, può essere più importante e corretto intercettare la volontà e il bisogno di visibilità delle minoranze, non delle maggioranze. Perciò il confronto è con se stessi, con il pubblico, senza presunzione, accettando il voto e il commento, e magari replicando con forza a sostegno delle proprie tesi, perché questo è il sale dell’informazione, e dell’opinione”.
A conclusione di questo iter, hai un pensiero da esporre, un consiglio da dare, un suggerimento...
“Penso che sia fondamentale, nel medio periodo, assicurare condizioni dignitose di indipendenza economica a chi si accosta al lavoro giornalistico avendone le qualità. I vecchi contratti non corrispondono più alle nuove realtà editoriali, compreso il 2.0, perciò è necessario ripensare ai criteri di pagamento del lavoro giornalistico, alle sue garanzie, al rispetto per il capitale rappresentato dal proprio lavoro (il copia e incolla del web è una pratica spesso indecente, e rischiosa, perché non tiene conto della necessaria verifica delle fonti, e anche del contesto). E’ un percorso lungo, al quale non giova un mercato fai da te, spesso selvaggio, nel quale la professionalità rischia di essere troppo spesso scacciata, come moneta, dall’intraprendenza e dalla gratuità a ogni costo. Il volontariato è importante, ma scelgo io le cause per le quali lavorare gratis, e con grande soddisfazione”.