Quanto costano quelle fotografie di Stefano Cucchi

par Piero Sorrentino
sabato 31 ottobre 2009

Può darsi che le foto di Stefano Cucchi da morto servano a dare a quel giovane la giustizia che non ha avuto da vivo. Quegli scatti atroci che annodano le viscere in un pugno stretto sotto lo pelle dello stomaco hanno fatto il giro della Rete, dei quotidiani e delle televisioni. Come per l’omicidio di Neda, la giovane iraniana uccisa nel corso di una manifestazione contro il regime, quelle immagini hanno smosso sentimenti e coscienze, facendo alzare alte le grida di chi non riesce a guardarle senza un moto di pietà, o un sussulto di umanità, di dolore, un brivido di fronte a quelle ossa rotte, quella carne tumefatta. 


Ma quelle foto (la loro diffusione pubblica) sono un errore, oltre che un orrore. E non è tanto il contenuto delle immagini a caricare di pericolo la pubblicazione di quegli scatti. Non siamo solamente al cospetto di una fotografia terribile che fa deviare gli occhi dallo schermo, o fa coprire gli occhi dei nostri figli qualora si trovassero a transitare nei dintorni mentre le stiamo guardando. Siamo in presenza di una modalità comunicativa che fa del “vedere tutto” un pericoloso precedente. In modo sacrosanto, sulla scia emotiva innescata da quelle immagini si stanno muovendo la magistratura e la politica, il giornalismo e la società civile.


Quelle immagini sono diventate la benzina della coscienza, hanno innescato discussioni, richieste, appelli, voci che chiedono giustizia e verità. Ci hanno strappato dal pantano delle spallucce e dei “non posso farci nulla”. Ma quelle immagini (la loro diffusione pubblica) sono pericolose. Perché il pericolo che corriamo, volenti o nolenti, è quello di alzare un centimetro di più, ancora una volta, l’asticella che misura il livello della nostra sete di giustizia e verità. Di assumere, volenti o nolenti, una postura di lotta e di opposizione contro le bugie, gli insabbiamenti, le censure e le violenze del Potere che scatta solo quando sotto gli occhi ci vengono squadernati video e foto o audio. Rischiando, di fronte ai prossimi Stefano Cucchi, o alle prossime Neda, di voler vedere altrettanto, di voler vedere ancora (o addirittura di più). E non per morbosità o voyeurismo, come quelli che in autostrada rallentano per dare una sbirciatina al lenzuolo insanguinato sull’altro lato della carreggiata. Ma perché, così facendo, si rischia che - se qualcosa non ce la mostra youtube, o facebook, o una galleria di fotografie sui siti dei quotidiani – quella cosa non esiste, non ci (s)muove, non dà fiato alle nostre voci per chiedere giustizia e verità. Perché quando avremo visto tutto, non ci resterà più niente da vedere. Di Federico Aldrovandi abbiamo visto una foto col viso violaceo, la smorfia della morte sulla faccia. Di Neda, già qualcosa in più: il sangue che, proprio in quel momento, usciva a fiotti dalla bocca, dal naso, gli occhi che si spegnevano secondo dopo secondo. Del povero Stefano Cucchi abbiamo adesso un intero, spaventoso set live dall’obitorio, roba che fa tremare le vene ai polsi.
 
L’esplosione di un afflato civile capace di aggregarsi efficacemente ormai solo attorno a quello che si vede, a quello che è misurabile pixel per pixel, scatto dopo scatto, ridimensiona pericolosamente il perimetro di un sacrosanto movimento assetato, in casi come questo, di giustizia e verità e onore da restituire a un corpo sfondato, abusato, vilipeso. Sommerse dalla ridondanza delle immagini, le parole rischiano di affogare, e non bastare più. Quando lo sdegno nasce dalla rappresentazione di una realtà dolorosa, diventano più tollerabili le realtà meno rappresentate, o non rappresentate per nulla. La coscienza morale è un congegno complicato. Per avere orrore di un orrore, rischia di non bastare più che quell’orrore esista. E non ci basta nemmeno vederla direttamente, una realtà orribile, perché arrivi a scuoterci; rischiamo di aver bisogno di osservarla mediata attraverso un occhio che non è il nostro occhio umano. Se la gravità morale fa sentire la sua forza attrattiva solo quando ne abbiamo abbastanza, precipitiamo a corpo morto verso cosa? Verso l’orrore in sé, o verso la consapevolezza che quell’orrore ci coglie impreparati ad ammetterlo? Al cospetto dello Stefano Cucchi prossimo venturo, davanti al dolore di sua madre – davanti al dolore degli altri, direbbe Susan Sontag - in lacrime al telegiornale, che denuncia la morte inspiegabile di suo figlio, potremmo un giorno guardarci intorno, e non vedere nulla, se non il dolore nudo di una madre, e una denuncia alla Procura della Repubblica redatta in Times new roman da quella donna straziata. E senza il supporto di un audiovisivo qualsiasi, senza l’indignazione provocata da quelle povere mascelle sfasciate, da quelle arcate oculari tumefatte, da quella schiena fratturata, potremmo trovarci, quel giorno, a mormorare qualcosa di critico sulla giustizia italiana, o sulla violenza che ancora alligna in certi settori malati delle forze dell’ordine, sul fatto che ormai non c’è più giustizia, per poi tornare a sorvegliare la cottura degli spaghetti sul fuoco.


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