Quanto ci complica la vita l’Islam

par Fabio Della Pergola
martedì 20 agosto 2013

Sono già state scritte tante pagine sul tremendo bagno di sangue egiziano e sul suo omologo siriano (ma senza dimenticare Libia e Tunisia e nemmeno il duro braccio di ferro tra governo e protestatari di Istanbul o, tantomeno, la brutta sorte dell'ormai antica Onda Verde iraniana o, ancora, la drammaticissima - e molto silenziata - guerra civile algerina).

Ed è stato scritto molto sull’incompatibilità, vera o presunta, tra Islam e democrazia, per lo meno tra la democrazia come la conosciamo noi e l’Islam come lo concepiscono le fratellanze musulmane nelle loro varie declinazioni più o meno estremizzanti.

Il Corriere, in particolare, ha pubblicato un interessante articolo sul tema di Elisabetta Rosaspina che intervista il giornalista-saggista francese Renaud Girard, esperto di Medio Oriente del Figaro. Sconfinando - ma non si capisce come se ne potrebbe fare a meno - sullo scivoloso piano confessionale, la giornalista si chiede “perché dunque l’Islam sarebbe allergico alla democrazia?”.

Perché non esiste nella civilizzazione musulmana una separazione tra la sfera religiosa e la sfera politica”, è la scontata risposta di Girard.

Fino a qui le cose sono note. Il contrasto interno all’Islam non è mai stato tra Fede e Legge, che trova al contrario una sua fusione nella sharÄ«’a, in cui diritto penale, diritto civile, disposizioni igieniche e alimentari o norme etiche e comportamentali anche in ambito sessuale, convivono in un tutt’uno con gli aspetti più strettamente teologici, in modo pressoché incomprensibile per un occidentale.

Lo scontro fu piuttosto fra religiosi e filosofi razionalisti, anche se noi occidentali consideriamo “grandi”, non a caso, proprio un Avicenna o un Averroè. È da quell'epoca infatti - attorno al X secolo - che lo scontro ideologico ha prodotto l’Islam che noi conosciamo, con il suo divieto a "interpretare" filosoficamente, razionalmente il testo coranico (“lo spirito critico è considerato satanico”, dice Girard) che fa impossibile la convivenza fra dogmi religiosi e un autonomo diritto civile.

Per certi versi è lo stesso problema che il mondo ebraico si trova a dover affrontare con quelle frange ultraortodosse che non sopportano di doversi adeguare alla legge del laicissimo Stato israeliano; ricorderete gli scabrosi incidenti delle donne che non accettavano di sedersi “dietro” sugli autobus frequentati dagli haredim; questi pretendevano l‘osservanza dei "loro" precetti e solo l'intervento della polizia poteva ripristinare la legge che vieta discriminazioni anche sui bus di linea.

Casi molto più rari perché nell’ebraismo i filosofi - cioè i portatori di un pensiero interpretativo “altro” - nonostante uno scontro molto simile a quello islamico tra misticismo e filosofia, non sono stati emarginati come nell’islam, ma hanno avuto una loro vita, benché minoritaria a lungo, per secoli addirittura; come nel caso di Mosè Maimonide, uno dei pensatori ebrei più letti e commentati, sul cui razionalismo è stato posto l’accento (forse forzando un po’ il suo pensiero) anche in epoca moderna.

Girard mette in evidenza come la differenza fra mondo islamico e Cristianesimo possa essere rintracciata già nell’evangelico “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” che, secondo lui, chiarisce la volontà di separare sfera laica da sfera religiosa già ai primi passi della nuova religione; in altri termini che “Cristo non voleva interferire con la politica”.

Dove però l’uso dell’espressione “non voleva” appare molto ingenua, essendo stato banalmente tralasciato il fatto dell’ingombrante presenza, sul terreno, delle legioni romane. Il primo Cristianesimo, affermando l’amore per il “nemico” al posto del giudaico amore per un generico “prossimo”, dichiarò così la sua neutralità nella prassi e nella teoria rispetto alle devastanti guerre giudaiche che videro decine di migliaia di morti e la fine dello stato ebraico per i successivi venti secoli.

Neutralità nello scontro con Roma e accettazione della separazione fra legge dello Stato e codici religiosi sono elementi, politici più che teologici, che vanno di pari passo con l'apertura ai "greci" della nuova setta, tanto quanto il rifiuto della circonsione, e che segnò la storia del primo Cristianesimo, fino a che non si identificò, tre secoli dopo, con l’Impero. Dando il via poi al notevole bagno di sangue dei sovrani “cristianissimi”.

E il paragone fra la prassi della Chiesa e le parole del Cristo in effetti appare un po’ forzato anche agli occhi dell’intervistatrice che ricorda la Storia in cui “non sempre (sic) la Chiesa ha seguito l’esempio di Cristo”.

In altre parole la tendenza dei religiosi a sovrapporre il proprio dominio sui laici - sulla società civile, si direbbe oggi - sembra esistere ovunque nella storia dell’umanità, con buona pace delle argomentazioni assolutorie del saggista francese.

Il discrimine sta invece, notoriamente, in quella fase di elaborazione del pensiero occidentale detto Illuminismo (che anche l’ebraismo europeo ha avuto nella sua declinazione specifica chiamata “haskalah” e questo spiega come sia poi arrivato a determinare una società civile in stile "occidentale"), ignota all’Islam.

In Occidente l’individuale prese il sopravvento sul collettivo. La persona sulla comunità. I diritti umani sul diritto divino. La materia sullo spirito, che la cultura occidentale ha abbandonato alla religione non sapendo che farsene. E le due sfere del potere si sono separate; hanno accettato il primato ciascuna nel suo campo. Litigando spesso ma, alla fine, trovando un modus vivendi perché in fondo, come ripeteva spesso Papa Ratzinger, Religione e Ragione sostanzialmente vanno d'accordo (purché il fatto religioso rimanga confinato nel privato, cosa che stenta a fare).

Siamo perciò orgogliosi, noi occidentali, della nostra tradizione; e nello stesso tempo aspramente critici, per gli aspetti devastanti che la spietata razionalizzazione delle nostre società ha posto in essere e per quella che riteniamo un'illecita invadenza della Chiesa nella vita pubblica. E sono orgogliosi loro, gli islamici, della loro tradizione; e nello stesso tempo aspramente critici per l'impossibilità di affermare diritti civili e umani in una cultura che contempla il collettivo, la Umma, ben più che l'individuo e il volere di Dio ben più che il volere umano. E per il dettato divino - intoccabile, ininterpretabile, indiscutibile - che fa a cazzotti con l'esigenza umana di sapere e conoscere, di porsi domande e cercare risposte.

Piccolo problema: qui da noi è (relativamente) facile capire chi sono gli affamatori e chi gli affamati. Chi sono i buoni e chi i cattivi. Dov’è la destra e dove la sinistra (per usare categorie che qualcuno ritiene, chissà poi perché, superate).

Nel mondo islamico invece o trovate dittatori in divisa o prevaricatori in turbante. Il che ci rende sempre più difficile dire da che parte stiamo. Così per quante stragi vengano commesse nel mondo islamico non si vede mai una, nemmeno una, manifestazione pacifista. Semplicemente perché non si può manifestare per gli uni, ma nemmeno per gli altri.

E restiamo lì, affascinati dalla forza di un popolo che sa abbattere una dittatura feroce e poi costernati per l'ottusa sopraffazione con cui il vincitore di elezioni democratiche pensava di potersi porre al di sopra di ogni possibile critica come un Califfo dei bei tempi andati; e di nuovo entusiasti per il popolo che si ribella contro la prevaricazione e di nuovo allucinati per l'estrema violenza della repressione e lo scorrere del sangue di gente disarmata capace di fronteggiare i blindati a mani nude.

Così parteggiamo per gli uni, ma anche per gli altri. E siamo contro gli uni, ma anche contro gli altri. Contro i militari e contro gli islamisti, in affannata ricerca di una società "civile", cioè la più simile a noi, con cui stabilire un rapporto di amorosi sensi. In un assurdo carosello di solidarietà a giorni alterni che ci fa capire solo la nostra impossibilità di parteggiare per qualcuno che non comprendiamo; perché - semplicemente - non ha mai avuto la nostra storia.

Quanto ci rende difficile la vita, questo complicato Islam che, per un breve tempo, ci ha illuso di poter trovare una democrazia senza passare, come noi, attraverso le forche caudine di una drammatica razionalizzazione della vita e della cultura.

Qui finisce una ricerca "storico-culturale" e si apre la domanda politica.

In contemporanea alla crisi egiziana si sono riaperti (finalmente) i colloqui di pace israelo-palestinesi: nonostante il ruolo fondamentale giocato dal governo Morsi per mettere fine al conflitto tra lo stato ebraico e Hamas del novembre 2012, con un sostanziale successo politico dell'organizzazione palestinese, la possibilità che l'ANP potesse avere nuovamente un ruolo credibile al tavolo delle trattative dipendeva solo dall'indebolimento del suo antagonista e concorrente di Gaza.

Come ci ricorda Emma Mancini su il Manifesto "Oggi Hamas appare più debole. Il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani, è costretto ad assistere al crollo dell'Islam politico in Egitto e alla ripresa dei negoziati - seppur fragilissimi - tra Anp e Israele".

A parte l'involontaria comicità di parlare ancora di "assedio di Tel Aviv" salvo dire, una riga dopo, che "il Cairo ha chiuso a tempo indeterminato il valico di Rafah tra Egitto e Gaza" (ma allora "assedio" è un concetto astratto?) e che Morsi aveva fatto "allagare i tunnel a Rafah" (alla faccia della fratellanza panislamista), il finale dell'articolo è condivisibile: "Così sembra spegnarsi il potere conquistato dall'Islam politico nei mesi successivi alle primavere arabe. Hamas è una delle vittime".

Quale miglior occasione per i non-islamisti - ma anche per Israele e per gli Stati arabi contrari alle varie "fratellanze" e politicamente avversi all'influenza iraniana nella regione - per risolvere finalmente anche la questione Palestina, mentre i concorrenti filoiraniani, Siria e Hezbollah, sono in altre faccende affacendati?

Foto: Marviikad/Flickr


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