Quando lo straniero rema contro

par Migena Proi
martedì 4 maggio 2010

L’espansione del fenomeno leghista s’è trascinato appresso voti e volti che hanno generato grandi lusinghe nell’opinione pubblica che leghista non è. Dei voti se n’è parlato abbastanza, analizzandoli da ogni possibile visuale. Ciò su cui non è stato detto abbastanza sono i volti. Non quelli padani, non quelli italiani, bensì quelli stranieri.

Edlira Mamutaj, 23 anni, albanese, in Toscana è l’addetta stampa del Lega Nord regionale. Sandy Cane, italo-afroamericana, leghista, è stata eletta sindaco di Viaggiù. Fino ad arrivare ai cittadini comuni che non si candidano per la Lega, ma che ad essa guardano con ammirazione. I giornali di questi giorni ne parlano. Su “L’Unità” è possibile vedere l’intervista ad un ragazzo albanese, proprietario di un bar, tesserato leghista.

La domanda che in molti è nata spontanea è: “Come può una persona extracomunitaria (tanto per usare un termine caro ai leghisti) sentirsi rappresentata o addirittura candidarsi con il Carroccio?”. 

Non si tratta ovviamente di inscenare un “j’accuse”, né di puntare il dito accusatorio contro. Si tratta semplicemente della volontà di voler capire; di trovare quel miscuglio di ragioni che spingono lo straniero verso le braccia di chi (umanamente, legislativamente e mediaticamente) lo bistratta. Non parliamo di una forza politica qualunque, che opta per un programma politico conservatore piuttosto che liberale. Parliamo di chi mette in discussione e spesso rinnega i valori della Costituzione, aderendo piuttosto agli assi portanti del nazionalsocialismo, quali il mito del sangue, del suolo o il mito celtico. Un partito che da risposte dal sapore locale ad un fenomeno globale come i flussi migratori.

I sentieri sociologici e psicologici che conducono al Carroccio hanno diverse sfumature. Tralasciando il puro masochismo (legittimo e personale), proverò ad individuare ed analizzare i diversi motivi.

In primis, lo straniero, come l’Italiano, subisce il sistema di disinformazione che vige nei mezzi di comunicazione. Le ultima ricerche lo confermano: i media trattano dell’immigrato solo quando è coinvolto in casi di cronaca, e lo fanno usando un linguaggio duro ed aggressivo. Dunque la strategia comunicativa che sembra voler mirare alla stigmatizzazione negativa dell’immigrato, fa il suo effetto sugli stessi stranieri. Quando i notiziari trattavano delle violenze commesse dai romeni (come se le commettessero solo loro), non era difficile che altri stranieri, di origine diversa, si lamentassero dell’aggressività dei romeni.

La temuta perdita del lavoro giustifica la xenofobia anche nell’immigrato, portandolo a sostenere la chiusura delle frontiere. In effetti non erra Annamaria Rivera (nota sociologa) quando definisce il razzismo un fenomeno a geometria variabile: le vittime di ieri potrebbero diventare i carnefici di oggi. Un esempio: le “badanti” di lunga data si lamentano delle “nuove arrivate”, poiché, si sa, una maggiore offerta nel mercato del lavoro contrae gli stipendi. E lo stesso avviene negli altri settori lavorativi.

Altro aspetto da considerare è la formazione culturale, religiosa e identitaria che può determinare il sentirsi in sintonia con forze politiche che propagandano valori “tradizionali” (come ad esempio la famiglia patriarcale, con il ruolo della donna che ne consegue). Questi valori sembrano essere per molti stranieri prioritari rispetto all’immagine che la Lega contribuisce a diffondere di essi: come di un essere pericoloso ontologicamente, nato con il dna “delinquente”.

Non bisogna poi dimenticare che molti immigrati proveniente dall’est hanno ancora vivo il ricordo del comunismo. Al rosso preferiscono il verde – quanto dobbiamo aspettare prima che si inorridiscano anche del verde? – o comunque i partiti di destra (che in questo particolare periodo storico non facendosi di certo portatori di multiculturalismo, non sposano completamente gli interessi degli immigrati).

Infine, un lato più psicologico da prendere in considerazione è relativo a ciò che accade alla sfera emotiva dell’Ulisse una volta giunto in Italia. La desolazione di aver attraversato terre e mari per ritrovarsi in un luogo dove tutti quelli che un tempo erano i punti di riferimento non ci sono più, può spingere alla perdita di sé. Dove per perdita di sé si intende debolezza psicologica che sfianca e non sempre permettere di reagire da leoni ad una società (almeno una parte) che intorno è ostile e pronta al giudizio. Si tende perciò al conformismo verso la cultura mainstream, mettendo da parte il coraggio che qualsiasi opinione autonoma richiede. L’immigrato ha il dovere morale, per sé ed i propri figli, di non assumere il ruolo dello Zelig di Woody Allen. Il famoso personaggio ebreo del grande regista, una volta ritrovatosi nella Germania di Hitler, diventa nazista lui stesso, incapace di mostrarsi in tutto il suo Io alla società.

In conclusione, per porre fine al “balletto sulla pelle degli immigrati” (espressione di Don Luigi Ciotti), è necessario sensibilizzare le coscienze non solo di chi ci accoglie. Nell’era della globalizzazione è necessario sensibilizzare gli spiriti di tutti (in questo caso, per davvero di tutti, senza distinzione di nazionalità) e, per dirla con le parole della filosofa americana Martha Nussbaum, porre le basi emotive per una società pluralista.

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