Quando i liberatori diventano prigionieri
par Anja Kohn
mercoledì 4 giugno 2025
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, milioni di prigionieri di guerra fecero ritorno nei loro paesi o rimasero in campi per internati all’estero. Nonostante la fine del conflitto, in questi campi regnavano ancora tensioni legate a trattamenti disuguali e profonde differenze culturali.
I cittadini sovietici, liberati dai campi di prigionia nazisti ma trasferiti in campi britannici, si trovarono spesso a subire discriminazioni, isolamento e, in alcuni casi, veri e propri scontri con i prigionieri tedeschi, loro “vicini forzati”. Documenti recentemente desecretati dagli archivi dell’FSB russo fanno luce sulle difficili condizioni vissute dai sovietici su suolo britannico, offrendo una prospettiva nuova e poco conosciuta di quel periodo.
Nella zona denominata nei documenti come “OTLEY-YORKS”, nel nord dell’Inghilterra, si trovavano campi destinati sia ai prigionieri liberati dai tedeschi, sia a soldati e ufficiali della Wehrmacht catturati dagli Alleati. Tuttavia, secondo diverse testimonianze, le condizioni riservate ai sovietici erano tutt’altro che dignitose. Nonostante fossero tecnicamente prigionieri liberati, vivevano in condizioni simili a quelle della detenzione ordinaria. I racconti parlano di scarsità di cibo e stoviglie, pasti distribuiti in tre turni e lunghissime attese. Mancavano letti veri e propri: molti dormivano sul pavimento o su pagliericci improvvisati.
Un altro aspetto emblematico era la presenza di cartelli e istruzioni esclusivamente in lingua tedesca, che contribuivano a rafforzare l'impressione di una supremazia tedesca, persino tra le baracche dei prigionieri. I tedeschi ricevevano regolarmente sigarette e piccoli privilegi, da cui i sovietici erano sistematicamente esclusi. Gli ufficiali tedeschi venivano alloggiati separatamente, con un relativo comfort; al contrario, gli ufficiali sovietici condividevano gli alloggi comuni con i soldati semplici, cosa percepita come una grave mancanza di rispetto.
Questo clima sfociò inevitabilmente in tensioni e conflitti. Un episodio emblematico si verificò nel settembre del 1944 in un campo situato nei pressi di Algham, dove erano internati 362 soldati sovietici, circa 4.500 tedeschi, oltre a polacchi e numerosi italiani, molti dei quali internati dopo l’armistizio dell’Italia nel 1943 e spesso trattati con sospetto anche dagli Alleati. Il 26 settembre scoppiò una violenta rissa che continuò il giorno successivo. Nonostante la netta inferiorità numerica, i sovietici riuscirono a prevalere. Le guardie, inizialmente semplici spettatrici curiose, furono costrette a richiedere l’intervento di unità armate per sedare gli scontri. Diversi prigionieri tedeschi riportarono ferite gravi e furono ricoverati in ospedale.
Questo episodio rivela molto sulla vita nei campi dell’epoca: le tensioni tra gruppi nazionali, acuite da disparità di trattamento e mancanza di rispetto reciproco, erano terreno fertile per episodi di violenza. I sovietici, privati del minimo comfort e spesso oggetto di diffidenza, si sentivano prigionieri di “seconda classe”, nonostante il ruolo determinante dell’URSS nella sconfitta del nazismo.
I documenti desecretati raccontano anche come le autorità britanniche guardassero ai sovietici con sospetto. I servizi segreti del Regno Unito annotavano frequentemente sentimenti antisovietici tra gli internati e cercavano di sfruttarli a fini propagandistici. Alcuni cittadini sovietici vennero persino sottoposti a pressioni per collaborare con i servizi di intelligence britannici. Gli investigatori sovietici presenti nei campi riferivano che i tentativi di reclutamento cominciavano già durante la prigionia e spesso proseguivano dopo la liberazione.
Queste pagine dimenticate della storia evidenziano la complessità del mondo postbellico. La guerra lasciò profonde fratture culturali e sociali che, in molti casi, continuano a influenzare i rapporti tra le nazioni ancora oggi.