Pronto Soccorso da incubo

par Maria Cristina Tozzi
mercoledì 30 marzo 2011

Roma, Policlinico Umberto I. Al pronto soccorso malati gravi parcheggiati in barella per giorni. Il disagio e lo sconforto di pazienti, familiari, medici e operatori sanitari. Condizioni da terzo mondo, aggravate dai continui tagli al numero di posti letto. L’odissea di un ricovero raccontata dalla moglie di un paziente .

Sono una comune cittadina residente nella Capitale d’Italia. A novembre 2010 mio marito è stato ricoverato al Policlinico ed è cominciato un incubo. A pochi passi da quella Porta Pia che tanta parte ha avuto nella Storia, varcare la soglia del Pronto Soccorso è stata una vera discesa agli inferi.

Questa è una storia con la s minuscola, ma sento che sia giusto raccontarla lo stesso. Lo farò attraverso qualche significativo episodio ancora vivido nella mia memoria: sarà sufficiente a illuminare chi non l’ha vissuta sulla propria pelle.

“Signora non si può stare qui” brontola un’infermiera rivolgendosi all’ennesima moglie che tenta di intrufolarsi nella camerata. “Lascio queste e me ne vado” mi scuso mostrando le pantofole. Mi dirigo spedita verso la terza barella: mio marito mi sta aspettando, in barella da due giorni. Entro in un ambiente ormai tristemente familiare. Un unico stanzone sprovvisto di finestre. Tutto intorno le porte di piccoli box che fungono da sala visite. Al centro le barelle, allineate su due file a distanza di non più di venti centimetri l’una dall’altra. I malati sono lì: una coperta sulle spalle, una flebo, gli effetti personali (scarpe comprese) ammucchiati su un piccolo ripiano inferiore. I più fortunati hanno un cuscino portato in fretta da casa da un parente. Altri (quelli arrivati da poco) hanno ancora le scarpe addosso e allora gli mettono un giornale sotto i piedi per non sporcare il lenzuolo. Continuamente infermieri e medici entrano ed escono affaccendati, cercando di svolgere nel modo più sereno possibile il loro lavoro in condizioni che definire precarie è un eufemismo. Le luci sono accese giorno e notte. Per poter riposare un po’ mio marito si è attrezzato con mascherina e tappi per le orecchie, ma stanotte il paziente della barella a fianco (con evidenti problemi psichici) gli si è scagliato addosso tentando di strangolarlo. Sono dovuti intervenire gli infermieri che lo hanno dirottato in una saletta appartata. La promiscuità è assoluta. Non c’è privacy. Padelle e pappagalli scandiscono le giornate degli uomini e delle donne che tentano comunque di mantenere un minimo di dignità.

Fuori, nell’androne che funge da sala d’attesa per i parenti, da una cabina a vetri il personale fornisce in tempo reale informazioni sulle cure fornite ai degenti in attesa di ricovero. “Sua madre ha fatto le analisi e adesso la stanno portando a fare la TAC” risponde un’infermiera alla figlia di una signora. Un servizio utile ed efficiente, se non fosse per il fatto che dopo i primi accertamenti non resta che aspettare giorni e giorni sulla barella sperando che si liberi un letto in reparto. Il personale è sconfortato:”Noi non possiamo fare più niente. Il posto non c’è!” Medici e personale sono in prima linea: come interfaccia con malati e parenti subiscono spesso i loro sfoghi e si sentono impotenti. Dopo quattro giorni di attesa io stessa mi sono trovata a urlare nella sala d’aspetto, subito consolata da una responsabile del reparto. Una signora efficientissima che quando si è liberato il primo posto letto mi ha telefonato personalmente per comunicarmelo. Ho trovato molta solidarietà e umanità in questo girone dantesco. Scende la sera. L’androne si svuota dei parenti ed entrano in scena i clochard che vi trovano riparo per la notte. Uno si sdraia accanto a me avvolto nei suoi stracci. Emana un odore tremendo, chissà da quanto tempo non si fa una doccia! Mi allontano un po’ e penso: “…Fosse un malato da troppo tempo in lista d’attesa?” Chissà!

La mia storia finisce qui. E’ la reale fotografia di una situazione disastrosa e drammatica. E qui il discorso diventa denuncia: l’elefante “macchina regionale”, col suo stuolo di alti dirigenti, ha partorito il topolino di un servizio sanitario ridotto al lumicino. Il tutto coi soldi dei soliti noti, come troppo spesso accade!


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