Primavera a Tindouf: un viaggio tra i saharawi

par Maria Cerino
lunedì 9 settembre 2013

Uno dei primi aneddoti che mi ha raccontato Nadel riguarda la sua esperienza teatrale in Europa con Pippo del Bono, in particolare di quella volta in cui un’altra attrice della compagnia gli ha chiesto di mostrargli il suo pene circonciso e lui – lo dice ridendo e mimando con cadenza emiliana – rintanatosi con lei in un bagno pubblico, ha sperato in un qualche gesto di gratitudine consequenziale.

E quindi no, da quel momento, ai miei occhi i saharawi non potevano essere semplicemente il popolo degli esiliati, i cacciati dalla terra del Sahara Occidentale, dal Marocco, e divisi da un muro di sabbia e mine; né gli ex coloni del re di Spagna, né ancora una causa di conflitto tra il medio oriente e l’occidente, o ancora dei musulmani moderati – progressisti, come piace etichettarli a certa stampa e come li additano pure certi estremisti di queste parti per le libertà di cui godono le donne.

Una comunità che attende: ciò che ho sentito visitando i campi di Tindouf non è il sentimento di perdita che accompagna le rinunce – sono qua perché non posso combattere ancora una guerra, non ne ho gli uomini, le forze, gli armamenti, e sono sconfitto, sì, sono uno sconfitto, questa è la mia resa – ma di sottrazione.

Vivono per sottrazione, ecco, a Smara a Dakhla o a Aaaiun, il rituale quotidiano non ha a che vedere con le azioni ma con le detrazioni; metti, per esempio, i soldi delle adozioni a distanza e queste madri con il capo coperto che si presentano a ritirarli ogni volta con figli diversi – e allora scatta l’interrogatorio: tu chi sei ma questo non è il bambino dello scorso anno, guarda la foto, è diverso, dov’è, dov’è l’altro bambino, va a prenderlo, prendi tuo figlio, questo non è tuo figlio – e si affannano a difendere una genealogia fasulla, a motivare un’assenza se proprio messe all’angolo, e imprecano quando riescono a ritrovare, vagando per il villaggio, il ragazzino dell’altro anno mentre tornano indietro prendono la busta e si allontanano con il denaro.

E, partecipando a questo sentimento di detrazione, il figlio inventato sostituito in nome di una continuità comunque fittizia o l’ibrido sessuale che si diventa tra una sintassi erotica e l’altra, ora in questa terra degli islamisti impuri, ho dovuto più volte combattere con l’impulso a urlare "Scandalo scandalo scandalo". 

E non che ci sia un’immagine, un fatto di cui scandalizzarsi, ne mancano i lineamenti precisi, ogni cosa si sbava nel tempo, un tempo lento. Ho passato così tante ore seduta nelle tende con le donne a bere tè da risultarmi impossibile preoccuparmi della situazione femminile; come le donne vivano in questa terra, in mezzo al deserto, e da esiliate, è un problema in Italia, qua è semplicemente la vita, è come pensarci, noi occidentali, un secolo fa e non che non ci sia stato miglioramento – è palese – ma la storia è la più forte delle riabilitazioni, anche quando conferma un orrore.

Leggendo del popolo saharawi mi ero già imbattuta nel racconto del rituale del tè: entri in una casa da straniero quelli ti mettono a sedere – non prima di averti obbligato a togliere le scarpe (io, per esempio, me la sono cavata – anche grazie al mio traduttore Nadel – con la scusa di una dermatite da contatto violenta) – e ti offrono per tre volte un bicchierino caldo e schiumante: la prima volta “amaro come la vita”, la seconda “dolce come l’amore” e l’ultima “soave come la morte”.

Con quel modo commovente di chi vive di carità cristiana e mette una vicina alle altre le parole "vita amore e morte" che però non mi ha commosso affatto; mi ha commosso, invece, l’esser testimone di una lentezza rispettosa, quella sì dolce, nell’accendere i carboni, far bollire l’acqua a fuoco lento, rincarare o dimezzare la quantità di menta, di foglie di tè e di zucchero. Ero così rapita dai movimenti colmi di attenzione delle femmine da pretendere che con quelle stesse mani mi truccassero, mi pettinassero e mi vestissero affinché, come l’acqua messa a bollire le foglie contate e un po’ di miele in abbondanza, mi sentissi – ferma nel loro tempo lento di cura – io stessa necessaria.

E a differenza di un corto di quasi una ventina di anni fa girato nei campi da Mario MartoneUna storia Saharawi, il titolo – in cui un bambino viene morso da un serpente velenoso e il padre affronta un lungo viaggio per cercare un medico e salvarlo, non mi sembra che il tempo (soprattutto quello materiale dell’azione) li condanni ma, al contrario, li assista. Non a caso i momenti in cui mi sono sentita ridicola hanno a che fare con l’ansia, con il terrore che prima di tutto agisce sulla percezione che si ha dei secondi e dei minuti (misura che nessuna civiltà ignorante l’esistenza della catena di montaggio e del trapianto di cuore ha il dovere di conoscere).

Quando sono atterrata all’aeroporto militare di Tindouf, Nadel (questo giovane uomo con trascorsi da attore piuttosto basso e magrolino con gli occhi sgranati e i denti storti scalfiti dalla carie – sono un segno distintivo del popolo saharawi – vissuto per quasi metà della sua vita a Bologna per poi tornare qua, sposare, figliare e deprimersi, oltre a fare da traduttore per italiani venuti ad imparare il senso della vita e della solidarietà o, come me, senza obiettivi particolari) mi aspettava con un amico per portarmi al villaggio a bordo di una gip bianca.

Bisognava seguire una carovana di auto con a capo un comando militare, una scorta, per ragioni di sicurezza, e non nascondo di aver percepito una punta di cinismo compiaciuto nel procedere lento di Nadel, nell’allontanarsi dal resto del gruppo in modo che mi risultasse difficile, non solo sentirmi protetta dai fucili della milizia, ma anche consolarmi con le sagome dei miei connazionali seduti nella gip precedente e di venti trenta altre sagome di spagnoli con cui avevo volato da Algeri a Tindouf.

Mai strada mi è sembrata lunga come quella che porta a Smara, forse una quarantina di minuti, ora non sono in grado di dirlo con esattezza, di pensieri spaventosi, voglia di urlare a ogni parola pronunciata in arabo, di pretendere di scendere e farsela a piedi nel deserto, o più semplicemente di ammettere di essere spaventata e pregare il conducente, Nadel, di avvicinarsi alle altre auto; invece, pur terrorizzata, non solo ho dissimulato l’ansia – erano pur le tre di notte e il deserto buio come non ho mai conosciuto il buio prima – ma mi sono persino concessa qualche battuta sulla bellezza della luna e il clima mite.

Così una volta arrivati nella casetta dove avremmo passato la notte l’adrenalina mi aveva reso tanto stupida da credere le piccole finestre basse, invece che coperte da tendine, murate e di poter evitare un sequestro (sì, sequestro: ero certa che quei due estranei arabi mi avrebbero tenuta rinchiusa lì per almeno sei mesi e lo vedevo il volto devastato di mia madre mentre si faceva largo tra i giornalisti senza rispondere a nessuna domanda; quanto bene ho scoperto di volerle in una situazione inventata in cui per caso mi sono imbattuta nella sua vera natura di madre del sud protettiva e arcaica) staccando il lucchetto appeso all’esterno della porta della mia camera e nascondendolo sotto una pila di tappeti. Risvegliandomi, con la luce e l’economia della stanza chiara e onesta ho riso, ho telefonato in Italia e ho riso raccontando l’accaduto e dichiarandomi idiota. Quanta liberazione nella parola "idiota".

Nadel ha una figlia, in italiano il suo nome sarebbe Stella. Lecca gli involucri delle caramelle e ti guarda fisso negli occhi, non puoi fare a meno di chiederti se quel patetismo, quella sintassi della richiesta di carità sia connaturata, la imparino con il latte materno, una forma di estorsione innata e violenta. Anche il suo modo di giocare con le ciotole da riso con la sabbia – travasare granelli da una più grande alle altre più piccole, per ore – sembrerebbe un sottile ricatto se non fosse che si diverte davvero. La prima volta che mi ha incontrata, Stella, puntandomi il dito contro ha detto "Babati"; ho chiesto al padre cosa significasse, una parola che ha inventato per indicare voi italiani, ha risposto.

Credevo, l’ho creduto per qualche ora, prima che abbandonassi la tenda e le donne della famiglia di Nadel, che "babati" associato agli italiani avesse a che fare con la bellezza, invece no, o almeno non in forma esclusiva. Se sei un babati, sei come un ramoscello sottile spuntato nel deserto, come il cucciolo di un animale, sei delicato. Ogni cosa, là nel Sahara, ti minaccia, ti spiazza, ti spaventa. E io ero un babati perché più di tutto ho provato paura.

Ho avuto paura dell’intera giornata passata seduta con le donne, di dimenticarne la misura, paura che mi piacesse quella dimenticanza; ho avuto paura che mi sequestrassero ogni volta che mi sono spostata da un villaggio all’altro, che il mio cellulare non avesse linea, che il mio mondo – quello che vivo in Italia – diventasse a sua volta una dimenticanza, che l’Africa mi divorasse; ho avuto paura della spilla da balia con cui mi hanno truccato l’interno dell’occhio all’henne; paura della carne di cammello; paura della loro acqua. Ho avuto paura di essere nel ventre del mondo e che quello non fosse il passato, o la condanna, di alcuni ma fosse il futuro di tutti.

Ho avuto paura, terribile paura, di quella collettività isolata non solo dalla propria terra ma dall’idea stessa di una terra propria; ero terrorizzata che quella coscienza di classe collettiva cresciuta nella povertà e su un senso assoluto di sacrificio avesse un’altra motivazione ancora oltre alla guerra e alla fame, sì, ma quale.

Una sorta di coscienza di classe di natura, di questo ho avuto paura.

 

foto: Stefano Montesi


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