Primavera Sound 2011, 5 giorni di concerti e stiamo apposto così (fino al prossimo Primavera)

par Lucio Carbonelli
venerdì 24 giugno 2011

E così anche questa è andata, il miglior (possiamo azzardare?) festival europeo – il Primavera Sound di Barcellona – è finito, cinque giorni (dal 25 al 29 maggio, senza tener conto degli altri concerti sparsi per la città) che hanno visto alternarsi su dieci palchi (senza contare quelli più piccoli cittadini, appunto) circa trecento band (!!!), e nessuno di questi concerti può definirsi superfluo, anzi: se qualcuno avesse avuto il desiderio di capire dove sta andando la musica oggi, questo sarebbe stato il festival imprescindibile, perché è qui che la minoranza “indie” diventa maggioranza mostrando al mondo ciò con cui davvero vale la pena di nutrire le proprie orecchie oggi.

Ora, davanti a un festival del genere, con un programma così ricco e articolato l’appassionato non può che prepararsi una scaletta di ferro ma allo stesso tempo flessibile, dotarsi di un paio di scarpe comode e giubbetto per gli orari più freddi, essere pronto a scolarsi un paio di redbull nel cuore della notte (anche se non ti piacciono, sì, altrimenti come fai), e pregare che quello che vuole assolutamente vedere non si sovrapponga più di tanto a quello che si è così curiosi di vedere; sì, perché se proprio vogliamo trovare una pecca infame a questo festival è il fatto che facendo suonare così tanti palchi in contemporanea è inevitabile che più concerti interessanti si sovrappongano, lasciando sì l’ascoltatore di turno felice per quello che ha appena sentito, ma di una felicità con un retrogusto un po’ amaro per quello che si appena perso però, pazienza. L’unica è vedere per intero quei concerti per cui una volta tornati a casa senza averli visti ci si prenderebbe a pugni da soli e poi spiluccare mezzorette qua e là di gruppi da vedere per curiosità o che si è già visti in precedenza, sperando almeno nella vicinanza dei palchi (come se non bastasse il sovrapporsi degli orari, ci si mettono anche le distanze!).
 
[sufjan stevens]
 
Ma, passando al festival in sé, se proprio bisogna fare un unico nome tra tutti quelli visti, allora la scelta non può che essere obbligata: Sufjan Stevens. Assistere al suo concerto è già di per sé un evento, considerato il modo macchinoso con cui gli organizzatori del Primavera hanno deciso l’accesso: Sufjan ha infatti suonato nel magnifico auditorium (una vera e propria perfetta navicella spaziale/sonora, come sottolinea lo stesso Sufjan che a quanto dice viene dalle stelle, illuminato e ispirato dai disegni dell’auto-proclamatosi profeta Royal Robertson) e dati i posti limitati bisognava prenotarsi e poi sperare nella sorte, un sorteggio avrebbe infatti deciso i pochi fortunati ammessi. La fortuna è stata dalla nostra, evviva, e il concerto di Sufjan è stato a dir poco fantasmagorico, fosforescente. Il buio in sala, una tela davanti al palco su cui proiettare vari effetti visivi, la voce del cantante americano è risuonata sommessa e allo stesso tempo potente per circa due ore, emozionando di continuo. Sufjan fa la sua apparizione sul palco con ali d’angelo e in tuta fluorescente e si capisce subito che questo non sarà un concerto come tutti gli altri, sarà uno spettacolo completo piuttosto, come se Sufjan fosse un michaeljackson indie: Sufjan infatti canta, balla, parla, suona, scrive, spiega, emoziona, insomma rasenta la perfezione: non si sa se amarlo o se odiarlo, ma nel dubbio meglio l’amore. Come fare a non amarlo dopo una versione di Chicago da brividi, in cui il pubblico in delirio si riversa giù dalle poltrone per ammirare da vicino il semidio? Correre su youtube, se non ci si crede. Obbiettivamente parlando, il suo è stato il concerto più bello: sconvolgente nel senso migliore del termine, una vera e propria esperienza totale, apollinea.

 
[flaming lips]
 
Ma se dobbiamo dar retta al cuore, come non citare i favolosi Flaming Lips? Una band che dopo qualche passo leggermente falso è ritornata (pre)potentemente sulle scene con un album, Embryonic, che definire capolavoro è poco, uno dei più belli pubblicati negli ultimi tre anni, una cavalcata di psichedelia pop/rock che ascoltata in cuffia regala emozioni che quasi neanche i Pink Floyd dei tempi d’oro. Ogni concerto delle labbra di fuoco è una festa, e non solo perché volano palloncini e coriandoli ovunque, ma soprattutto per il leader Wayne Coyne, uno di quei pazzi con cui vorresti poter passare tutte le tue giornate a parlare di u.f.o. marziani, gelati che si sciolgono, e babbonatali sotto acido. Poco prima del concerto lo stesso Wayne, una specie di pelliccia/gatto attorno al collo, esce sul palco a salutare il pubblico per avvertire che durante lo show il gruppo farà uso di luci stroboscopiche piuttosto potenti e, be’, se non le reggete, basterà non guardare, ma ci sarà mai qualcuno che avrà il coraggio di chiudere gli occhi? Wayne aprirà il concerto rotolando sul pubblico all’interno della sua famosa palla di plastica: si è mai visto qualcuno che si dà più di così al suo pubblico? Per non parlare dei teenager reclutati tra il pubblico vestiti da personaggi del Mago di Oz (Dorothy, lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta, il Leone Codardo). La scaletta suonata non sarà incentrata del tutto sull’ultimo album come i concerti dell’anno scorso, ma pescherà a piene mani anche da altri capolavori più o meno recenti come The Soft Bulletine Yoshimi Battles The Pink Robots, fino ad arrivare a un dionisiaco finale con Race For The Prize e Do You Realize?? che verranno cantate in coro da tutto il pubblico, stupendo e lasciando a bocca aperta lo stesso Wayne, che umiltà quest’uomo; intanto sono passate quasi due ore e sembra ancora troppo poco, si è avuta l’impressione che fosse stato per loro i Flaming Lips avrebbero suonato perlomeno un’altra ora.
 
 
[animal collective]
 
Poi ci sono stati gli Animal Collective, che ogni loro concerto è diverso dall’altro. Già tre anni fa, in versione trio il collettivo animale aveva incantato il pubblico spagnolo (e non) con un concerto quasi tutto al buio, luci pulsanti a parte, suonato quasi per intero con le macchine, all’epoca si stava avendo il passaggio dagli animali acustici agli animali elettronici, e di lì a poco sarebbe stato pubblicato quel gran capolavoro titolato Merryweather Post Pavillion, un album che basta vedere quanti gruppi elettronici (e non) ha influenzato per rendersi conto di quanto importante e seminale sia stato. Anche questa volta gli Animal Collective spiazzano e tornano sul palco catalano come una vera e propria band, con il ritorno di Deakin infatti fanno la loro ricomparsa una batteria acustica, delle chitarre, un basso. Si ha l’impressione che i quattro (oltre a Deakin, Panda Bear, Avey Tare, Geologist) attacchino e suonino perlopiù pezzi nuovi per testarne la bontà, ragion per cui il concerto si rivela un po’ difficile da seguire anche per il fan più sfegatato, eppure la vena elettronica è confermata, il genio si sente, e quando eseguono quel paio di pezzi dall’ultimo disco l’apoteosi è totale, per non parlare di un’estatica We Tiger remiscelata secondo le sonorità attuali del gruppo.
 

[swans]
 
Una cosa bella del Primavera è che poi hai la possibilità di vedere “vecchie” glorie che non si vedevano da un bel po’ in giro, di goderti quindi una vera e propria sezione “anziani che suonano post-punk spaccando ancora il culo a tutti” (fan-page subito), roba tipo i P.I.L. con un John Lydon sempre in gran forma, per non parlare del più che arzillo vecchietto alla chitarra Lu Edmonds, che potrebbe dare più di una lezione a tanti emo-fessi di oggi; e poi i Pere Ubu, con un David Thomas dimagritissimo che per tutto il concerto continuerà a bere chissà cosa dalla sua famigerata fiaschetta, gruppo che farà per intero tutto The Modern Dance, con qualche annotazione sparsa qua e là però, considerata la brevità del disco; ancora, i Suicide, forse i più vecchi di tutti, che già qualche anno fa a Roma nonostante la vecchiaia avevano dimostrato di avere ancora qualcosa da dire, rivendicando quello che hanno inventato davanti a tutti gli electro-clashers di oggi, in quest’occasione anche loro ripropongono per intero il loro disco più famoso, ovvero il debutto, creando un electro-magma sonoro che allucina quasi tutto il pubblico presente; ancora, i tedeschi Einstürzende Neubauten che tra omaggi futuristi e accelerazioni rumoristiche propongono quasi un’ora e mezza di musica che sarebbe stata da godersi tutta, se la curiosità per altri gruppi non avesse avuto la meglio; e infine gli Swans, il cui concerto definire apocalittico è ancora troppo poco: chitarre, basso, batterie, voce da profeta biblico: tutto questo concorre a creare una tensione violenta e palpabilissima che non si sa cosa potrebbe scatenare, se l’occasione fosse altra rispetto al pacifico Primavera: passi accanto a una cassa e quasi il suono ti butta a terra, e meno male che l’ottimo Michael Gira aveva esordito dicendo che voleva fare l’amore con noi tutti, lì sopra, sul palco, subito dopo il concerto.
 
[twin shadow]
 
Tra le “novità” confermate e le scoperte più interessanti vanno invece ricordati sicuramente gli esplosivi Black Angels, che avvalendosi della dimensione più intima dell’Apolo Club riescono a dare il meglio di sé con un concerto super-elettrico dagli echi doorsiani/velvetiani che si candida a essere uno dei migliori dell’intero festival (puoi sentire quello che vuoi, ma l’elettricità vince sempre); gli Ariel Pink’s Haunted Graffiti, gruppo di allucinato rock psichedelico consigliatissimo dal Collettivo Animale; le Warpaint, quartetto tutto al femminile che suona canzoni lunghe e dilatate tra punk e rock; The Soft Moon, che si rifanno a sonorità postpunk/newwave dimostrando di aver appreso molto bene la lezione New Order; Twin Shadow, che tra pop ed electro appare come un incrocio tra il miglior David Bowie e il miglior Prince; i Deerhunter, che fanno un concerto di tiratissimo shoegaze senza fermarsi un attimo avvolgendo tutto il pubblico in una sorta di malinconica nuvola gravida di elettricità; i Battles, che pur avendo perso uno dei membri portanti del loro suono (Tyonday Braxton, figlio di cotanto Anthony Braxton) si dimostrano anche alle quattro di mattina in formissima con la loro avantgarde-dance; gli Of Montreal, coloratissimi e supergay come sempre e con un palco invaso da svariati lottatori mascherati, non si sa perché; i Gang Gang Dance, una sorta di Animal Collective ancora più danzerecci e leggermente più comprensibili; i Fleet Foxes, che nonostante le loro melodie leggere riescono a far ammutolire tutto il pubblico in adorazione; i Cults, nuova promessa indie-pop piuttosto carina; gli interessanti Za!, una specie di incrocio tra i Faith No More e i Battles che suoneranno tutti e tre i giorni del festival; e infine Gonjasufi, che in verità si rivela l’unica vera grande delusione di tutto il festival, dimenticando chissà dove le drogate atmosfere elettroniche dell’esordio e suonando invece una sorta di rap/metal che manco la peggior cover band dei Rage Against The Machine.
 

[pj harvey]
 
Ancora, è indispensabile dedicare qualche riga a uno dei concerti più magici e intensi visti nel cuore della notte, ovvero al concerto dei Low, elettriche atmosfere sospese tra Velvet Underground e Neil Young che illuminano la notte di una luce un po’ meno oscura; e poi la fascinosa P.J. Harvey, in bianco virginale e ornata di piume, anche questo uno dei concerti più belli, con Polly Jean che pur essendo un’artista ormai diversissima dagli esordi non dimentica il passato, risuonando anche vecchi pezzi (C’mon Billy, Down By The Water, Meet Ze Monsta) che riarrangiati oggi acquistano una bellezza nuova; e poi ancora i Pulp di Jarvis Cocker, riunitisi per l’occasione, che con Disco 2000 e Common People fanno ballare tutti, con un pensiero speciale agli Indignados; i Belle And Sebastian che, nonostante il solito maledetto vulcano islandese avesse fatto temere per il loro arrivo, sono riusciti ad arrivare in terra di Spagna per suonare le loro melodie tutte zucchero e miele; e poi ancora come non citare le musiche avanguardistiche (non-)suonate dall’ensemble del maestro sonico Glenn Branca, i cattivissimi Grinderman con uno spiritato Nick Cave che non solo butta via una chitarra ma manda all’aria perfino un esterrefatto Warren Ellis, gli ironici e divertenti BMX Bandits, e i drogatissimi Mercury Rev che suonano per intero il loro capolavoro Deserter’s Songs, ottima riproposizione cosmica anche se non proprio filologica.
 

[glenn branca]
 
Infine, sì, ci siamo quasi, non va dimenticato che il Primavera Sound non è solo rock e tutte le sue declinazioni, ma anche elettronica e tutte le sue quasi infinite varianti; ecco allora un grandissimo Girl Talk, genio del mash-up che con i suoi campioni non trattati ma incastrati l’uno nell’altro farà ballare migliaia di persone dalle cinque di mattina all’alba; un immarcescibile DJ Shadow, che da dentro la sua sfera luminosa sparerà bordate di drum’n’bass ma soprattutto di hip-hop vecchia scuola non facendo sembrare questa musica per niente “passata”, anzi, proprio tutto il contrario; le atmosfere tropicali ed erotiche di El Guincho, con tanto di ballerine discinte che si prendono a cuscinate sul palco; Caribou, qui in versione band live che anche se forse rende la sua musica un po’ meno trascinante lo conferma pur sempre una spanna sopra molti altri artisti elettronici; il soul rarefatto e futuristico di James Blake, che purtroppo però si trova a scontare la vicinanza con un palco più rumoroso perdendo molto in atmosfera; il dubstep più oscuro e frammentato di Jamie XX (e il pensiero va al grande poeta/attivista/musicista Gil Scott-Heron, per cui Jamie ha remixato l’ultimo album I’m New Here dandogli sonorità più contemporanee, morto tristemente proprio nei giorni del Primavera) e Kode9 And The Space Ape (che nonostante qualche imperfezione fa s/ballare abbastanza).
 
[caribou]
 
E qui finisce il nostro parziale, parzialissimo, report speciale: si è visto quello che si è potuto, quindi nessuno se la prenda per quello di cui non si è scritto. Di ciò che a malincuore non si è riuscito a vedere, meglio dimenticarsene. Per il prossimo anno, un consiglio all’organizzazione: in attesa dell’invenzione della macchina dell’ubiquità, perché non pensare a un servizio navette interno per ovviare alle distanze infinite e alle maledette sovrapposizioni? Sarebbe più che perfetto.
 
¡Hasta luego, Primavera!  

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