Primarie e prospettive: il gioco delle parti

par Fabio Della Pergola
martedì 27 novembre 2012

Quando il gioco si fa duro, si sa, i duri cominciano a giocare. Così diceva John Belushi in Animal House, ricordando che nessun americano si era mai arreso dopo il bombardamento “tedesco” (sic) di Pearl Harbour.

La Pearl Harbour della sinistra (quella più recente, intendo) la conosciamo tutti: sono state le elezioni del 2008 quando il comandante in capo del maggior partito della sinistra, Walter Veltroni, decise che il PD avrebbe corso da solo e andò a sbattere contro un iceberg regalando all’Italia quattro anni supplementari di berlusconismo. Decisione demenziale, ma non del tutto incomprensibile se si ricordano gli estenuanti ‘distinguo’ che ognuno dei partitini dell’uno per cento pretendeva di vedersi riconosciuto con cadenza pressoché quotidiana: avrebbero sfinito chiunque.

L’altro comprimario, Fausto Bertinotti, messo alle strette così mise su, in fretta e furia, l’armata brancaleone dell’ultrasinistra guidandola sotto le insegne dell’Arcobaleno verso le paludi dell’inconsistenza extraparlamentare.

Oggi ri-cominciamo dal fatto che tre milioni abbondanti di persone si sono sciroppati, senza alcun obbligo di legge, il tour di iscrizione/registrazione/voto che in alcuni casi è stato altamente drammatico (nel senso che è drammaticamente durato ore di pallosissima fila). E che quindi è confermata l’idea che sia stato un momento di forte e voluta espressione democratica (e qui ci starebbe bene una bella polemica con la “democrazia da web” - ampiamente incontrollabile - del Grillo/Casaleggio-pensiero).

Poi, all’analisi dei fatti, leggiamo le dichiarazioni. Renzi: “ho vinto nelle regioni rosse”, avrebbe affermato secondo i report giornalistici. Naturalmente basta fare una verifica per accorgersi che ha vinto in Toscana e Umbria, pareggiato nelle Marche, perso in Liguria e Emilia-Romagna. Quindi nelle regioni rosse è pari e patta, non ha vinto un bel niente.

In tutto il sud e nelle isole (esclusa Puglia, Abruzzo e Molise) Bersani si sarebbe affermato subito, senza dover andare al ballottaggio, mentre tutto il nord, come il Lazio, oscilla attorno alla media nazionale (45% Bersani, 36% Renzi; più o meno).

Diventa quindi decisivo quel 15% dell’ultrasinistra catto-comunista vendoliana. Ed è qui che “il gioco si fa duro” perché i due leader di area, Renzi e Vendola, sarebbero in realtà incompatibili fra loro (a parte la fervente partecipazione alla santa messa); uno liberista, fan di Ichino ed ex-fan pentito (forse) di Marchionne; tendente al centro con inusitate aperture all’elettorato berlusconiano, cortesemente ricambiato dopo la cena ad Arcore (per la stessa cosa a Pannella furono generosamente elargiti sputi in faccia e l’accusa di essere un voltagabbana opportunista).

L’altro ben piazzato invece nella tradizione anticapitalista (più o meno edulcorata) del marxismo d’antàn, con netta chiusura al centro neodemocristiano e all’esperienza del governo tecnico. Ma non è dato sapere come uscirebbe dalla crisi attuale.

E se questi due sono incompatibili, la strada sarebbe tutta in discesa per il segretario del PD, quindi. Ma, come suggerisce lo stesso leader di SEL "Bersani se li deve conquistare i voti che sono venuti a me nel primo turno". Quindi anche con l’ortodossia del Partito Democratico le cose non sono poi così tranquille come farebbe pensare il detto “il nemico del mio nemico è mio amico”.

Come può Bersani conquistare i voti di SEL e come potrebbe, al contrario, farlo Renzi? Attorno a questa banale domanda - niente più di un gioco di società, al momento - si gioca tutto l’assetto futuro non solo della sinistra italiana, ma presumibilmente del paese (anche se non si deve mai dimenticare che la sinistra italiana potrebbe essere capacissima di perdere le elezioni anche quando dall’altra parte non c’è nessuno).

La risposta non è affatto facile, ma per Bersani il traguardo non è poi così lontano se gli si accredita già da ora quel 4% della coppia Puppato-Tabacci (cosa non scontata, ma tutt’altro che improbabile). E, al momento decisivo, potrebbero scendere in campo ulteriori forze “tradizionaliste” rimaste alla finestra finora. Avrebbe quindi meno bisogno dei voti vendoliani di quanto non sembri.

Mentre per Renzi l’appoggio eventuale di Vendola sarebbe proprio indispensabile; e, se non dimentichiamo il caloroso cinguettio di amorosi sensi fra i due competitor che abbiamo visto durante il faccia a faccia trasmesso da Sky, possiamo intuire che fra i due l’incompatibilità potrebbe non essere poi così ferrea come risulterebbe dalle dichiarazioni precedenti.

Se Renzi ha tassativo bisogno di Vendola per affermarsi, Vendola ha bisogno di Renzi per non sparire definitivamente in quella zona d’ombra in cui l’ultrasinistra si è cacciata dai tempi dell’Arcobaleno. Un accordo tra i due darebbe al sindaco di Firenze l’unica opportunità di vincere che ha e al governatore pugliese l’unica possibilità di balzare sulla tolda di comando a fianco del vincitore (come vicecomandante oppure come semplice portatore d’acqua, non lo sappiamo, ma - malignamente - optiamo per la seconda ipotesi).

Una scombinata coppia giovane-rampante-blairiano-molto-trendy/quasi-anziano-gay-con-orecchino-e-saltello, accomunati oltre che dalla fede religiosa anche da un’interpretazione logorroica della politica. Coppia che potrebbe balzare così agli onori delle cronache europee dove l’eclisse di Monti e l’apparizione di questo nuovo che avanza potrebbe essere visto con malcelato orrore. Mentre un’ipotesi di agreement tra un PD bersaniano e il nuovo centro moderato di nuovo conio Montezemolo-ACLI-Monti potrebbe essere accolto ovviamente con favore (e non dimentichiamoci che "favore" o "orrore" significano balzi dello spread e interessi in più o in meno da pagare).

Ma quale potrebbe essere, in questo ipotetico gioco delle parti, il punto di accordo tra renziani e vendoliani? E quali i punti di divergenza da nascondere rapidamente sotto il tappeto?

A queste domande, cui è impossibile rispondere perché presuppongono tatticismi, non strategie di ampio respiro, poi se ne aggiunge un’altra a mio avviso più dirompente, che aprirebbe invece scenari ancora più complessi: che significato ha l’improvvisa apertura di credito di Fausto Bertinotti al Movimento Cinque Stelle quando, uscendo dal suo torpore (o splendido isolamento), ha affermato che Grillo copre il vuoto a sinistra, “esaltando il ricorso alla rivolta”?

Non è che la sinistra ex-rifondarola del Comandante Fausto, repellendo Renzi al di là di ogni possibile tatticismo e spregiando l’ortodossia bersaniana, nutra qualche sottile voglia di rivalsa?

Magari che abbia voglia di cedere al proprio ribellismo mai sopìto, incanalandosi sotto le insegne del movimento populista del ‘tutti a casa’, affascinata per l’ennesima volta dal “muoia Sansone con tutti i filistei”? 

Che la novità vera di queste primarie sia paradossalmente la possibilità che si apra un dialogo (in-fausto) tra Fausto e Beppe, alla faccia delle manovre politiche vendoliane e chiudendo gli occhi sulla gran sacca di simpatie che arrivano a Grillo dalla destra ex-berlusconiana ed ex-leghista (Parma docet) ? Se il comico genovese è già accreditato del 20-21% dell'elettorato, quanta "sinistra" gli serve per diventare il primo partito italiano?

In ogni ambito della politica nostrana fervono frenetici lavori in corso, per rimediare al disastro epocale combinato negli ultimi anni. Quindi: auguri a tutti noi, perché quando il gioco si fa duro, c'è chi comincia a giocare e chi invece ci lascia le penne.


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