Possiamo investire nelle rinnovabili?

par Gaetano Buglisi
sabato 26 gennaio 2013

Che futuro per gli investimenti italiani nelle energie rinnovabili? Il settore è forte ma la politica ostacola, ogni giorno di più.

Il delta energia si allarga nel dibattito politico. Mentre si continua a cianciare di agende e ripresa, contrapponendo slogan a slogan, la realtà sembra ormai correre lungo tutt'altra strada. I dati dell'esplosione dell'export italiano ci indicano che una politica industriale in Italia, nel silenzio del governo, comunque è stata fatta e il nostro sistema paese, all'ombra della crisi, ha deciso autonomamente di collocarsi sui livelli cosidetti intermedi delle produzioni tecnologiche conquistando primati nei segmenti delle applicazioni mirate: dalle turbine a gas alle macchine a controllo numerico ai telai computerizzati.

Lo stesso sta capitando nel settore energetico, dove la scelta a favore delle rinnovabili è nelle cose. Con l'unica differenza che mentre rispetto all'export industriale il governo si limita a disinteressarsi delle strategie, nel campo energetico, interviene pesantemente, cercando di ostacolare lo sviluppo.

I dati sono impressionanti: nel 2012 la produzione di fotovoltaico in Italia ha largamente superato i 18 terawattore, incrementando, rispetto all'anno precedente, del 71% il suo prodotto. In un anno di congiuntura economica drammatica, con una riduzione complessiva della domanda di energia di ben quasi tre punti percentuali. E con tutte le altre fonti energetiche che hanno chiuso con un decremento consistente rispetto al 2011.

L'anno appena iniziato, benché risentirà pesantemente dei tagli agli incentivi decretati dai vari governi che si sono succeduti, potrebbe fare ancora meglio. Il Kyoto club calcola che potremmo superare la soglia dei 100 miliardi di kilowattora, arrivando a sodisfare circa il 31% della domanda complessiva di energia.
Siamo ad un vero boom.

Il dato da considerare, però, è un altro.
Il processo di sviluppo delle energie rinnovabili, in particolare del fotovoltaico, nonostante le congiunture negative e gli accanimenti legislativi, segnala una velocità di espansione assolutamente straordinaria. In soli 4 anni l'aumento della produzione di energia solare è stata di circa il 2.600%. Un fenomeno che non può rimanere confinato nell'eccentricità econometriche. Dobbiamo pretendere che la politica ci dica come considera questa potenza del sistema Italia. Siamo ormai a livello della cosidetta legge di Moore che ha garantito negli ultimi 40 anni lo sviluppo esponenziale delle tecnologie digitali. Il solare sta diventando un fenomeno economico che esplode geometricamente, raddoppiando ogni due anni la sua capacità di impatto sul sistema.

La ragione, che è anche il valore aggiunto del fotovoltaico, riguarda proprio la sua natura pervasiva del modello produttivo e distributivo.

Il fotovoltaico è sempre più un fenomeno sociale, come Internet, prima che una tecnologia. Questo riguarda sia le installazioni a campo, che nei nuovi impianti urbani a tetto. Come vogliamo indirizzare questo fenomeno?

Questo è il quesito che non compare nel dibattito politico.

È evidente che con la fine del 2013 arriveremo ad un bivio: la potenza delle rinnovabili scardinerà l'equilibrio del vecchio sistema energetico, basato sulle centrali termo elettriche a combustibile dell'Enel, distribuite da Terna.

Cosa accadrà?
Blocchiamo tutto per permettere all'Enel di ammortizzare i suoi cervellotici investimenti? Affidiamo a Terna la discrezionalità di far valere nelle borse energetiche la priorità del prodotto proveniente dalle centrali Enel?

Uccidiamo la potenzialità di combinare fotovoltaico con le nuovi produzioni intermedie che stanno furoreggiando all'estero, abbattendo il gap energetico che da 50 anni aggrava il made in Italy? Queste sono le domande fondamentali con cui si governa un paese.

Dalle risposte capiremo se imprenditori che vogliono investire non solo e non tanto nel fotovoltaico ma in un modello industriale competitivo possano farlo, in particolare nel mezzogiorno, nelle regioni solari, come Puglia e Campania.

Possiamo?


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