Poesia, quotidianità e vicende terrene dell’uomo nelle storie di John Cheever
par Giovanni Graziano Manca
sabato 25 maggio 2013
Lo scrittore americano John Cheever (1912-1982) non ha mai goduto di grande popolarità, nel nostro paese. Peraltro, nonostante di lui in Italia non si sia mai parlato molto, di volta in volta e soprattutto altrove egli è stato definito maestro, cantore dell’ipocrisia e della infelicità, scrittore ‘artisticamente sincero’, sofisticato, pungente. Brillante e amato da molti malgrado il suo animo e la sua persona fossero spesso gravati dai risultati di una inestinguibile malinconia e di un profondissimo sentimento di solitudine, Cheveer occupa una posizione di primo piano nell'ambito della scena letteraria americana del Novecento, all'interno della quale si è distinto per essere uno dei migliori autori di storie brevi che gli Stati Uniti abbiano mai espresso. Che quella di Cheever venga da più parti considerata come una delle voci più eminenti dell'intera letteratura novecentesca d'oltreoceano, del resto, non può stupire, se solo si considera che in effetti, lo scrittore del Massachusetts, a partire dalla metà degli anni Trenta e fino agli inizi degli anni Ottanta del XX secolo, ha elaborato e sviluppato man mano uno stile letterario che pur facendo in qualche modo riferimento a coordinate stilistiche preesistenti e ben individuate (lo si accosta spesso a Kafka, a Cechov e a F.S.Fitzgerald ma anche a certi altri scrittori americani come John Fante e il più giovane Raymond Carver, autori, questi ultimi, che con Cheever sembrano avere in comune alcuni aspetti del proprio non lineare trascorso giovanile) si presenta al lettore come originale e riconoscibilissimo.
Per la brevità e la particolare forma in cui si concretizza, nelle sue innumerevoli short stories, l’espressione narrativa cheeveriana potremmo forse ricordare lo scrittore statunitense come l’iniziatore di uno stile letterario che accoglie al suo interno un riuscitissimo amalgama di tratti realistici e minimalistici.
Ironico e spesso assistito da doti di finissimo umorista, nelle sue storie brevi Cheever descrive vicende agre non di rado ambientate all’interno di famiglie borghesi. I suoi racconti, inoltre, con un tono che a seconda dei casi potremmo definire confidenziale, ‘sussurrato’, suadente, discorsivo, limpido e sempre scevro da qualsiasi appesantimento sintattico, possono raccontare dei quotidiani minuti e difficili rapporti tra vicini di casa o tra fratelli che vivono lontani e che non si stimano affatto, di madri e mogli nevrotiche, coppie in crisi, impegnati e pazienti sovraintendenti di condominio, casalinghe confuse e donne di servizio depresse, manovratori d’ascensore rimasti senza lavoro, e cosi via.
Appare chiaro l’obiettivo ultimo della scrittura cheeveriana, che evidenzia la predilezione dell’autore per le storie che consentono al lettore di riflettere sulla limitatezza, sulla meschinità, sugli egoismi e debolezze insiti nella condizione umana. Non capita quasi mai però, nei racconti di Cheever, che questi elementi, relegati come sono in sottofondi di amarezza e di nostalgiche suggestioni costituenti quell’indispensabile e a volte decisivo strumento che aiuta a capire il più intimo significato della storia narrata, siano espressi dall’autore in maniera chiara e aperta. Andrea Bajani sostiene che “[…] a me sembra che in questa negazione dei fantasmi, o meglio nella loro azione disturbante, perturbante, a tratti sbeffeggiante, ridicola […] stia uno dei nodi della poetica di John Cheever, e di quella crisi della classe media “new englander” che tanto spazio occupa nei suoi racconti e nei suoi romanzi”. Ancora: “Cheever”, osserva Adelaide Cioni, "era attaccatissimo a quella stessa società di cui descriveva la meschineria, in una felice rassegnazione che pochi sarebbero in grado di riconoscersi”. I motivi di questo attaccamento, si potrebbe aggiungere, appariranno certo non del tutto sconosciuti a coloro che conoscono le vicissitudini giovanili dell’autore americano almeno a grandi linee: bisessuale che per un bel pezzo della propria esistenza convive poco felicemente con le proprie inclinazioni e alcolista, è noto che fin dal suo concepimento suo padre aveva chiesto alla moglie di abortire e anche che la sua infanzia fu pesantemente segnata dal precipitare delle condizioni economiche e sociali della propria famiglia e dall’alcolismo del genitore. Quest’ultimo, inoltre, aveva più volte sconsigliato suo figlio John di intraprendere la professione letteraria.
Lo stesso Cheever, negli anni in cui la sua esistenza volge ormai al termine, ebbe modo di confessare che “Non sono laureato, e non mi sono neppure diplomato. Quello che sarebbe dovuto essere il periodo dell’università l’ho passato solo, affamato, e al freddo in una stanza in affitto a Manhattan”. Queste e altre crude esperienze pervasero l’animo dello scrittore nei suoi più profondi recessi praticamente per tutta la sua esistenza. Solo verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso egli riuscì ad guarire dall’alcolismo e, con riguardo alla propria bisessualità, a vedere se stesso con maggiore indulgenza. L’essenza della poetica cheeveriana è stata efficacemente sintetizzata dallo stesso autore con affermazioni come quella che segue: “Il signor X ha defecato nel primo cassetto della moglie. Questo è un fatto, ma io sostengo che non è una verità”. È anche il modo di Cheever di chiudere le sue storie, qui, ad essere messo in rilievo. L’autore americano, infatti, ben lungi dal raccontare storie che si concludono con azioni estreme, disturbanti o anche, si potrebbe dire, straordinariamente inconsuete, concentra la propria attenzione su avvenimenti o vicende che nella media dei casi trovano nel vissuto del (o dei) protagonisti e nella realtà del loro lentissimo giornaliero consumarsi, la maggiore probabilità di verificarsi effettivamente. Ciò, naturalmente, non esclude che nei racconti di Cheever siano sempre presenti tra le righe l’agrodolce, l’amaro, l’inquietante e, in controluce, un sottofondo di dolore intenso che i protagonisti assorbono dentro se stessi quasi in silenzio. Le caratteristiche della scrittura cheeveriana, peraltro, non vengono meno neppure nei racconti che egli ambienta nel nostro Paese (lo scrittore visse in Italia per circa una diecina di mesi, nella seconda metà degli anni Cinquanta). Tra essi, esempi ugualmente rappresentativi della notevole capacità di Cheever di descrivere circostanze e ambienti che si presentano alla immaginazione del lettore come assai verosimili e di approfondire psicologicamente il profilo dei vari personaggi che costellano le sue storie, appaiono i racconti A boy in Rome (nel quale a tratti, la città eterna e il nostro Paese sembrano ostaggi della decadenza, dell’indolenza e della pigrizia degli italiani) Il mondo delle mele, The bella lingua e Clementina, vicenda quest’ultima che vede protagonista una ragazza italiana di campagna cresciuta nel pregiudizio e nella superstizione, che al seguito di una famiglia americana presso cui si mette a servizio si reca negli Stati Uniti dove, costretta dalle circostanze a mettere in discussione i fondamenti della educazione che essa ha ricevuto in Italia rimane frastornata dallo stile di vita e dagli strumenti della modernità assai diffusi in quel mondo nuovo, l’America, in cui la vita “è tanto assurda e diversa”.
A proposito di suo padre, Susan, prima figlia di John, ha detto in un intervista: “È uno di quegli scrittori che provocano in te dei cambiamenti di prospettiva. Quando [dopo averlo letto] alzi lo sguardo, il mondo appare un po’ diverso rispetto a come era prima”. È, questo, per così dire, un effetto ‘collaterale’ che i lettori delle storie di Cheever conoscono bene e che sembra mostrare la capacità di questi racconti di lasciare aperte alla interpretazione di chi legge le più diverse strade. Si tratta tuttavia di una falsa ‘indeterminatezza’ e il lettore meno attento potrà forse interpreterla in direzione di una ‘debolezza’ strutturale del messaggio che l’autore intende veicolare, oppure della mancanza di coraggio da parte dello scrittore a raccontare al mondo esterno anche gli aspetti più oscuri o più inconfessabili della propria personalità. A fugare i pur sempre possibili dubbi in merito pensa, ancora una volta, lo stesso Cheever. Alla domanda, in una intervista da lui rilasciata nel 1976, se lo scrivere contemporaneo sia maggiormente autobiografico rispetto al passato, Cheever risponde che “[…] l’autobiografia e le lettere possono essere più interessanti della finzione, ma io continuerò ancora con il romanzo, che è un modo intenso di comunicare da cui i diversi tipi di lettore possono avere [su un determinato autore] le risposte che non riescono a ottenere dalle lettere o dai diari”. Parole dense di verità pronunciate da uno scrittore che ha tramutato in poesia la semplice quotidianità e le vicende terrene di quel vulnerabilissimo essere vivente che è l’uomo.
Bibliografia
John Cheever: I racconti, Feltrinelli 2012 (con interventi di A.Bajani e di A.Cioni);
John Cheever: Ballata del vecchio poeta senza Nobel (racconto dal titolo Il mondo delle mele), quotidiano Il Giornale nell’edizione dell’1.11.2009;
John Cheever: The art of fiction N°62, intervista rilasciata ad Annette Grant nel 1976, su http://www.theparisreview.org/interviews/3667/the-art-of-fiction-no-62-john-cheever ;
Cesare Alemanni, John Cheever, un profilo del maestro americano della short story, su: http://www.rivistastudio.com/editoriali/libri/john-cheever/ ;
Rachel Cook, The demons that drove John Cheveer, su: http://www.guardian.co.uk/books/2009/oct/18/john-cheever-blake-bailey.