Perché la buona scuola di Renzi non piace ai prof

par Giacomo Belvedere
giovedì 7 maggio 2015

La buona scuola di Renzi non piace a studenti e prof. Tutte le sigle sindacali sono scese il 5 maggio in piazza a manifestare il loro dissenso. Non accadeva da 7 anni. Secondo le prime stime, ha aderito allo sciopero circa l'80% dei docenti. Non va proprio giù il modello dirigista dell'uomo solo al comando che il premier vuole imporre.

Ph. Giuliana Buzzone

La buona scuola di Renzi non piace a studenti e docenti. Che non piaccia agli studenti non sorprende: è proprio dei giovani contestare il sistema. Guai se non fosse così. La novità è che la protesta ha coinvolto anche i prof, uniti e compatti come non mai. In tutta Italia è stata massiccia la mobilitazione contro la riforma del governo. Tutte le sigle sindacali sono scese il 5 maggio in piazza a manifestare il loro dissenso. Non accadeva da 7 anni. Secondo le stime dei sindacati, ha aderito allo sciopero circa l'80% dei docenti. È presto per esprimere una valutazione sull’incidenza che lo sciopero avrà sulle future scelte del governo, ma una cosa balza subito agli occhi: il decisionismo renziano ha ottenuto di ricompattare il fronte sindacale della scuola. E questo, considerato che il comparto scuola italiano è solitamente assai frastagliato e diviso, è già di per sé un successo della protesta.

UMILIATI E OFFESI - Renzi ha commesso un errore di valutazione. Non ha capito che nella scuola gli aspetti simbolici e ideali valgono assai più di quelli tecnici ed economici. Ridurre la questione scuola a un braccio di ferro con i sindacati da risolvere alternando il bastone con la carota, è una svista madornale. I docenti italiani subiscono da anni un processo di progressiva marginalizzazione e dequalificazione del loro prestigio sociale. Sottopagati rispetto ai loro colleghi europei, hanno visto anche venir meno la centralità del loro ruolo nella società. E si è vanificato il patto educativo con le famiglie su cui si reggeva la scuola italiana. Il prof è considerato ormai un controparte dalle famiglie, schierate in difesa dei loro figli, comunque sia. Eppure nella classe docente italiana è stato sinora forte il senso di appartenenza istituzionale allo Stato, di cui si considerano, più che dipendenti, rappresentanti: di qui la riluttanza a partecipare a forme di contestazione plateali, nonostante le continue umiliazioni. Ma qualcosa evidentemente si è rotto.

NO ALL'UOMO SOLO AL COMANDO - Delusi dalla scuola dell’autonomia, per lo più un contenitore vuoto di promesse mai mantenute e di investimenti mai stanziati, oggi non ci stanno a perdere l’unica vera autonomia rimasta: la libertà d’insegnamento riconosciuta dalla Costituzione italiana. Al di là di altri aspetti tecnici della riforma o di questioni che competono alla sfera economica, è questa la molla che ha fatto scattare la protesta. Non è andato giù il modello dirigista che impronta la riforma. Sotto accusa il ruolo dei dirigenti scolastici cui si concedono poteri molto più ampi dei compiti di direzione e controllo di cui oggi dispongono. Un aspetto assai criticato che è stato percepito come un attacco alla libertà d’insegnamento. I prof non intendono rinunciare all’ultimo brandello di prestigio e autonomia che gli resta, non accettano di essere ridotti a esecutori ubbidienti di direttive altrui. Una battaglia più simbolica che di rivendicazioni economiche. Ma la scuola è un luogo in cui i simboli sono tutto: questo aspetto è sfuggito al premier.

LA SCUOLA NON È UN'AZIENDA - Renzi ha inteso applicare il decisionismo a lui caro nell’ambito della scuola. La sua forma mentis dell'«uomo solo al comando» non gli ha permesso di capire che l’educazione vive di dialogo, libertà e autonomia, altrimenti muore, diventa indottrinamento di massa su un pensiero unico. Per questo la buona scuola renziana sa tanto di dispotismo illuminato e non piace. Non piace la burodidattica imposta dall'alto. La scuola non è un'azienda ma principalmente una comunità educante. Non è buona se non è libera. Non è una battaglia di retroguardia quella dei prof, in difesa di privilegi ormai superati, ma una lotta per mantenere vivo il principio democratico nell’educazione delle giovani generazioni. Che è quanto dire: per assicurare un futuro alla democrazia in Italia.


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