Perché è sbagliato abolire il canone Rai

par Giuseppe Caglioti
lunedì 12 ottobre 2009

La Rai è una delle più straordinarie istituzioni italiane, che per decenni ha informato, istruito e intrattenuto milioni di persone. Ad essa si deve gran parte dell’omologazione linguistica e culturale della nazione. Tutt’oggi essa fornisce servizi giornalistici e d’informazione di un’ampiezza straordinaria, da canali dedicati interamente all’informazione e alla storia, ad altri dedicati all’inglese e all’istruzione. Toglierle il canone, solo perchè ad alcuni politici brucia la loro versione della verità, sarebbe un delitto istituzionale.

Fino a qualche giorno fa si è fatto un gran parlare riguardo all’abolizione del canone Rai. Sebbene tale iniziativa permetta agli italiani di risparmiare un centinaio di euro, sarebbe opportuno, invece, definire i contorni della vicenda, che potrebbe vedere scomparire una delle più benefiche istituzioni culturali mai istituite in Italia.


La Rai, la cui sigla significa Radio Audizioni Italiane, ha una lunga storia che risale al Regio Decreto n. 1067/1923, grazie al quale venne istituita a Torino il 27 agosto 1924 con il nome di URI, e nel 1928 si trasformò nell’ EIAR. Nel 1944 venne denominata RAI, nome al quale si aggiunse la denominazione “Radiotelevisione italiana” quando il 3 gennaio 1954 iniziarono le trasmissioni televisive. 

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti; gli italiani poi devono a questa portentosa azienda una certa omologazione culturale, specialmente nel campo linguistico, cosa chiaramente positiva, che ha contribuito a superare un regionalismo esasperato.

In poche parole, se oggi gli italiani si sentono un ethnos un po’ più omogeneo e uniformato linguisticamente e culturalmente, lo si deve certamente anche alla Rai, oltre che alla scuola.

Fin dalla sua nascita ha fornito un servizio d’informazione straordinario, dapprima tramite la radio, successivamente soprattutto anche tramite la televisione. Già dai suoi primi albori ha dato spazio oltre che a programmi d’intrattenimento anche a documentari e programmi culturali che hanno contribuito a formare la coscienza di una parte dell’Italia contemporanea.

Certamente, la storia dell’azienda non può essere in tutti gli aspetti positiva. Infatti, proprio per il fatto che essa fornisce un servizio pubblico, si è fatto deliberatamente coincidere ciò con un servizio di Stato e del partito di maggioranza che in larga parte era, ed è, de facto lo Stato.

Da qui il mal costume è diventato diritto, ossia mentre la Rai veniva divisa tra i vari partiti maggiori con le sue tre reti assegnate rispettivamente a ciascuno di questi, l’idea di libertà d’informazione libera e imparziale andava rispettivamente a farsi benedire.

Con l’avvento delle televisioni private poi, oltre ad arrivare sul mercato un polo concorrente e privato, è anche arrivata una serie di influenze che hanno dato inizio a delle trasformazioni nel campo del costume e della percezione della realtà culturale dell’Italia e degli italiani.

Si sa che il servizio pubblico ha sempre tratto linfa vitale dal canone, istituito per sovvenzionarlo, mentre il servizio offerto dalle televisioni commerciali era, ed è legato, all’offerta di spazi pubblicitari durante la programmazione giornaliera.

In poche parole gran parte dei profitti dei networks privati sono tratti dalla pubblicità.

Fin dall’inizio la Rai e la Fininvest sono entrate in “conflitto”, vuoi per lo share, vuoi per il prestigio, cosa quest’ultima divenuta più stridente quando le reti private hanno lanciato servizi d’informazione come la televisione di Stato.

Il problema è poi divenuto ancora più increscioso quando Silvio Berlusconi, proprietario della Fininvest è entrato in politica e ha vinto le elezioni.

Inevitabilmente ha ereditato perciò il lascito che la vecchia partitocrazia aveva fino ad allora esercitato sulla Rai. Se nel bene e nel male è riuscito a controllare quasi due reti di questa, la terza, Rai tre, ha in parte tenuto un atteggiamento “non accomodante” nei confronti dei governi da lui presieduti.

I conflitti d’interessi e gli enormi interessi economici hanno reso la questione alquanto spinosa.

A questo punto nasce la domanda che chiarisce con la sua risposta lo scopo dell’articolo.

E’ lecito abolire il canone perché una piccola parte della Rai è ostile al governo e fa delle trasmissioni che alle volte – e non sempre – si rendono faziose?

La risposta è no. Il canone permette ad una grande azienda di esistere e continuare a fornire ai cittadini, suoi utenti, non solo diversi punti di vista sulla realtà italiana, ma anche un contro bilanciamento di una televisione diversa, che grazie ad altri canali, oltre i tre principali, copre enormi canali dell’informazione giornaliera, sia con le testate regionali sia con un canale satellitare apposito, Rai News 24. Vi è poi un intero network dedicato alla riscoperta della storia come Rai Storia con trasmissioni culturali 24 ore su 24; e che dire ancora del servizio internet gratuito di TV on demand o degli altri canali come Rai Educational o le tre reti radio, …la lista potrebbe continuare.

Dietro le affermazioni da parte di qualche politico si celano due aspetti della vicenda: il primo riguarda l’ignoranza riguardo a cosa sia e cosa offre il servizio pubblico Rai, la seconda nasconde un atto velato da un populismo della peggior specie e da enormi conflitti d’interessi.

Sono ben felice che ci siano trasmissioni, dato che tolleriamo “isole” e quant’altro, come Report, Annozero e Ballarò, ed anche se alle volte meritano giuste critiche, almeno non hanno paura di dissentire e gridare in faccia ai politici quello che fanno di sbagliato.

Insomma - tanto per parafrasare Santoro - che cosa sarebbe la Rai senza trasmissioni come queste?

Il canone Rai deve rimanere, per garantire, non solo trasmissioni che dissentono dalla fazione politica al potere, ma anche per continuare a fornire la stragrande maggioranza di servizi e di opzioni di grande utilità per la collettività.


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