Perché Sciascia è caduto nel dimenticatoio?
par Aldo Giannuli
mercoledì 29 aprile 2015
A novembre scorso è caduto il 25° anniversario della morte di Leonardo Sciascia: pochissimi e freddi i ricordi, così come era stato 5 anni fa per il ventennale. Nelle librerie si fa fatica a trovare i suoi libri. Raro che il suo nome ricompaia in trasmissioni televisive o che siano dati i film tratti dalle sue opere.
In parte questo è da attribuire ai meccanismi perversi dell’industria culturale degli ultimi anni: un autore defunto ormai non interessa un editore, che, a meno che l’autore non sia nei testi scolastici, punta al “nuovo Manzoni” da lanciare ogni anno, e dal quale si spera il grande boom –sin che dura-.
E’ la logica con la quale una ventina di anni fa si affacciò un nuovo grande astro della nostra letteratura: Susanna Tamaro (sic!!). Mentre moltissimi autori di notevole livello del Novecento finiscono dimenticati: da Montale a Morselli, da Bacchelli a Moravia e Morante (ma in questo ultimo casi non è un danno) da Bufalino a Fortini, da Brancati a Volponi, da Calvino appunto a Sciascia.
C’è anche una precisa ragione di strategie editoriali: la Sellerio, ad esempio, attualmente si rivolge ai lettori con Camilleri, per cui Sciascia gli toglierebbe spazio. In fondo, se Camilleri è “il nuovo Sciascia” che ce ne facciamo di quello vecchio? Camilleri merita e molto, ma perché non rilanciare Sciascia con una promozione accoppiata? Quindi in parte questo è il tritacarne editoriale a produrlo. Ma nel caso di Sciascia c’è qualcosa di più preciso.
Ma, al vecchio gentiluomo garantista, questo parve una scelta discutibile e lo scrisse, magari con un certo candore (politicamente Sciascia, che era letterato finissimo, era un ingenuo), dato che, con ogni probabilità, il criterio dei processi di Mafia era solo il trasparente velo che copriva gli accordi di corrente ed il consueto mercato nel Csm. Anche se va detto che, nel merito, la scelta non era stata affatto infelice, perché la scelta era caduta su un magistrato di grande livello.
Peraltro, Sciascia non diceva nulla di negativo su Borsellino, faceva solo una questione di correttezza e, se vogliamo, di stile.
La reazione fu assolutamente spropositata e Sciascia aggredito in modo incivile, gli si diede persino del “quacquaraquà” e quasi del complice di Mafia. Sciascia ne fu colto di sorpresa, ma tanta ingiustificata violenza verbale (che, a distanza di 28 anni dovrebbe procurare qualche rossore a chi sostenne quella controversia usando certe parole) c’erano due cose che Sciascia non considerava.
La prima era il suo allontanamento dal Pci, che provocò una reazione di forte antipatia, anche da parte di chi lo aveva precedentemente sostenuto. Nel 1979 Sciascia disse che, nei giorni del rapimento di Moro, Berlinguer gli avrebbe confidato (non sappiamo con quali precise parole) di temere che dietro le Br ci fossero i cecoslovacchi (cosa peraltro scritta nell’immediatezza del fatto da “Op”), Berlinguer aveva dato querela, Sciascia aveva chiesto la testimonianza del suo amico Guttuso, che era presente al colloquio e che invece, da militante comunista, lo smentì. Seguì la rottura personale fra i due intellettuali siciliani, perché lo scrittore di Racalmuto ritenne che più forte della disciplina di partito avrebbe dovuto essere il senso dell’onore (dicevamo, appunto, che egli era un ingenuo). Poi, Sciascia accettò la candidatura dei radicali tanto per il Parlamento Nazionale quanto per quello europeo (1979) e proprio nel momento di massima acutezza dello scontro fra Pannella ed il Pci. La cosa venne considerata come un tradimento dai comunisti che lo avevano eletto consigliere comunale a Palermo quattro anni prima. Il rispetto laico dell’altrui dissenso non è mai stata la migliore qualità del Pci e non lo fu neanche in quella occasione.
Dunque, nella seconda metà degli anni ottanta, mentre il Pci affrontava la sua peggiore stagione, Repubblica, diretta da Scalfari, puntava le sue carte proprio sul Pci –che ci si augurava diventasse un partico liberale, come poi accadde effettivamente- nella sua battaglia contro Craxi ed Andreotti. E per la proprietà transitiva, Sciascia, “nemico” del Pci, lo divenne anche del giornale di piazza Indipendenza. E questo era il primo fattore che sfuggì all’autore di “A ciascuno il suo”; il secondo fu che non percepì la nascita di quella autentica sciagura nazionale che fu il “partito dei magistrati”. La cosa divenne evidente qualche anno dopo con “Mani pulite”, ma quando Sciascia scrisse quello sfortunato articolo, la convergenza della sinistra verso la magistratura era già iniziata, proprio sul terreno della Mafia e grazie alla figura atipica di Falcone, scambiata per emblematica dell’intera categoria che presentava (e presenta) ben altre caratteristiche. La posizione di Sciascia era nel merito non condivisibile (almeno per quel che mi riguarda), perché la nomina di Borsellino poteva benissimo andare, ma non c’è dubbio che avesse diritto di esprimere quel, peraltro garbato e limitatissimo dissenso.
Di colpo ci si dimenticò di quello che Sciascia aveva fatto per oltre un ventennio (a partire dal “Giorno della civetta”) per far capire all’Italia che la Mafia esisteva davvero, mentre ancora troppi giornali ed autorità di governo si affannavano a negarlo, come fosse fatta e come stesse cambiando. Sciascia e Pantaleone furono decisivi anche per sradicare l’idea che la Mafia fosse solo una manifestazione di arretratezza, che sarebbe stata debellata con la modernizzazione dell’Isola, perché si stava modernizzando anch’essa. Ci aveva dimostrato (con “Il contesto” e poi “Todo Modo”) come il potere stesso si stesse criminalizzando ed assumendo forme di tipo mafioso, come la Mafia stesse risalendo la penisola invadendola (con “La Palma va a Nord”, che riletto oggi ci appare una predizione straordinaria di quel che ora vediamo nei comuni del nord). Tutto questo non contò più nulla: la sofisticata scrittura neo illuminista e laica di Sciascia non era più adatta nell’epoca del populismo giudiziario. Ormai bisognava scegliere: o con i magistrati o contro ed a nessuno veniva in mente che magistrati e classe politica erano solo due facce della stessa medaglia, due pezzi della stessa classe dirigente che si stavano azzuffando per ragioni di potere. E l’immagine di Falcone, ormai assassinato dalla Mafia, era usata come simbolo improprio di una categoria assai lontana dalla sua tensione morale.
Tutto questo Perrone lo ricostruisce molto bene e con la sua consueta penna veloce e gradevole, ma credo servirà ad assai poco, perché il libro sta avendo vita grama e pochissime e striminzite recensioni. La damnatio memoriae di Sciascia persiste.
Per il pochissimo che può servire, ve lo segnalo.