Pensioni, il tempo è scaduto: serve una riforma vera, equa e strutturale
par Gregorio Scribano
giovedì 19 giugno 2025
È una delle grandi ipocrisie italiane: si parla da anni di pensioni, si annunciano riforme epocali, ma intanto si alza l’età pensionabile e si abbassano gli assegni. Mentre la politica discute, la realtà avanza. E non aspetta.
Secondo le stime più aggiornate, nel 2030 potremmo dover attendere i 70 anni per andare in pensione. Una prospettiva che preoccupa milioni di lavoratori. Non è solo una questione di conti pubblici: è una questione sociale, che riguarda la dignità e la giustizia.
Oggi, per accedere alla pensione di vecchiaia servono almeno 20 anni di contributi e 67 anni d’età più la speranza di vita. Chi vuole anticipare l’uscita può farlo solo con la pensione anticipata ordinaria, ma servono ben 43 anni e 3 mesi di contributi per gli uomini e 42 anni e 3 mesi per le donne.
Numeri che, nella realtà del lavoro di oggi, pochissimi riescono a raggiungere.
Siamo onesti: è un sistema pensato per far arrivare alla pensione il minor numero di lavoratori possibile. E' un sistema per un’Italia che non esiste più. Quella del posto fisso, del lavoro continuativo, di carriere lineari. Oggi la realtà è fatta di precariato, part-time, partite IVA intermittenti e interruzioni involontarie. Un mondo che non trova spazio nelle regole attuali.
Tra le ipotesi allo studio del governo c’è la possibilità di pensionamento a 62 anni con il modello contributivo puro. In teoria è una misura di flessibilità: si esce prima, ma si prende solo quello che si è versato. Niente integrazione al minimo. Nessun aiuto pubblico.
La formula piace al MEF: lo Stato risparmia. Ma a farne le spese saranno i pensionati poveri. Quelli che hanno guadagnato poco o hanno avuto carriere spezzate.
Una 'formula' che somiglia molto ad un ricatto: o resti al lavoro, o accetti di vivere con pochi spicci.
Anche l’attuale pensione anticipata contributiva – a 64 anni con 20 anni di contributi – richiede condizioni quasi impossibili. Per accedervi, bisogna appartenere al sistema contributivo puro (cioè iniziare a lavorare dopo il 1995) e avere una pensione pari ad almeno 3 volte l’assegno sociale (oggi circa 1.616 euro al mese). Nel 2030, questa soglia potrebbe salire a 3,2 volte. Una follia per chi ha avuto redditi modesti o intermittenze lavorative.
Si spinge sempre più verso la previdenza integrativa. Fondi pensione, TFR, investimenti privati. Una soluzione utile – e giusta – per chi può permettersela. Ma per milioni di italiani che vivono con redditi bassi e incertezza lavorativa, è una strada sbarrata. Il rischio è chiaro: trasformare la pensione in un privilegio, non in un diritto.
Il governo Meloni ha promesso una riforma strutturale entro la fine della legislatura.
Un’occasione da non perdere. Ma servono scelte nette: non solo sostenibilità finanziaria, ma equità sociale, chiarezza normativa, rispetto per chi ha lavorato tutta la vita. Non servono più esperimenti temporanei: serve una visione di lungo periodo, capace di reggere la sfida demografica senza scaricare tutto sulle spalle dei più deboli.
Il tempo delle promesse è finito. Quello delle soluzioni vere è appena cominciato.