Pensieri di Renzo Bossi ad Arcore

par Fabio Chiusi
martedì 7 giugno 2011

Io me lo vedo Renzo Bossi ad Arcore, oggi. Seduto sulla sua sedia, un po’ in disparte. Teso, attento. In imbarazzo, no: dopo Hillary Clinton ha imparato a dosare il fiato e le forze, trovato la postura e il sorriso adatto. Me lo vedo, Renzo. A sentire il padre parlare di decentramento operativo di uffici ministeriali, vedere Berlusconi annuire, Alfano sbuffare, Calderoli ringhiare, le guardie del corpo guardarsi sotto agli occhiali da sole. Me lo vedo mentre gli viene un dubbio, tira la giacca del padre, gli sussurra in un orecchio «Umberto, guarda che a Roma si incazzano». E il padre mugugna. Tirarlo di nuovo, sussurrargli di nuovo «guarda che ai nostri elettori non interessa», e il padre mugugnare ancora, questa volta cercando di scacciarlo con la mano.

Me lo vedo, Renzo. Che torna a sedere poco lontano. Ascolta il discorso che nel frattempo è ripreso, arrivato alla riforma del fisco. Me lo vedo cercare con lo sguardo Tremonti, fissarlo mentre, con compostezza, guarda Silvio e scuote il capo. Guarda Umberto e scuote il capo. Guarda Calderoli e guarda subito fisso davanti a sé. Lo immagino cercare Silvio, mentre dice animato «solo qualche miliardo, solo per un anno», e mentre poi dispera per il diniego. Fissarsi sul padre, anche lui petulante, ma con rozzezza. «Giulio, questo non me lo puoi fare». E lui, Giulio, scuote comunque il capo, solo un po’ meno convintamente. Renzo, lo posso vedere, si sporge di nuovo verso il padre, prende lo stesso lembo della giacchetta e raggiunge lo stesso orecchio. «Umberto, guarda che gli elettori si incazzano, vogliono pagare meno tasse». E il padre, questa volta, mugugna in un altro modo, come rassegnato. «Umberto, ma non eravamo venuti qui per questo?», attacca. «Zitto, Renzo». E la mano, ancora, per scacciarlo. Prima di aggiungere, l’Umberto: «Per una volta che si era d’accordo con Silvio».

Vedo Renzo sulla sua sedia, mentre guarda un segretario nuovo di zecca prendere appunti, in silenzio. Mentre fissa gli occhi sugli occhi del padre che fissano quelli di Ghedini che fissano quelli di Brancher. Lì, sulla sedia, ascolta parole di circostanza, affranto. «Ti posso dare il ministero della Giustizia», dice Silvio a Umberto. «Non lo voglio, guarda a che ti è servito. A finire in tribunale», risponde, perfido. «Allora facciamo Giulio viceministro, più uno dei tuoi». Pausa. «Un altro». «Che è, una battuta?». E Silvio, Renzo lo vede, abbozza il sorriso con cui si è spalancato tante porte. Ma niente: nemmeno le parole di circostanza vanno a buon fine. Il segretario annota, e scrive: «nulla di fatto». Umberto si alza, si avvicina a Renzo e lo porta via. «Ora sai qual è la parte peggiore, figliolo?», dice l’Umberto, un po’ alla John Wayne. «Che dobbiamo mentire, a tutti. E già non ci credono più. Figurarsi fino al 2013». 


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