Passi avanti (un pomeriggio a L’Aquila con Matteo, suo cittadino)
par Luca Sacchieri
venerdì 26 novembre 2010
L'Aquila, dopo due anni, è una passeggiata forzata che taglia il centro storico di netto. Tutto il resto, tutto il reticolato di arterie intorno a quella vena principale, è chiuso. Il sangue non vi scorre più, anche se è "zona rossa".
La passeggiata forzata a tua disposizione, appunto, ti costringe a vedere, ma soprattutto ti costringe a non vedere.
Tutto intorno a te, il Medioevo, il Rinascimento e il Novecento ormai convivono con ferite che sono cicatrici nella pietra, con addosso un nuovo strato: le strutture in legno e in ferro delle impalcature sono nuovi scheletri per tener su in modo illusorio una città, svuotata dei suoi abitanti come delle mura portanti dei suoi appartamenti.
Se L'Aquila sta in piedi materialmente, esiste. Ma solo nell'immagine, e nell'immaginario.
Perché L'Aquila esiste sì, ma qualche metro più in basso: nelle scritte, nelle foto, nelle poesie, nelle testimonianze appese alle transenne le quali ingabbiano - queste ultime - quanto c'è ancora di architettonicamente accessibile, anche se solo agli occhi. E a distanza.
Il centro storico de L'Aquila, adesso, è una lugubre cartolina dove le gocce di pioggia rimbombano più dei passi, visto che questi sono molti di meno. E per lo più sono quelli gommosi dei militari.
"Ma c'è poca gente perché piove?" chiedo a Matteo.
"No, c'è poca gente e basta" ti risponde Matteo, forse dicendo molto di più col silenzio successivo.
Ed è proprio in quel suo consapevole silenzio - e nel tuo interdetto mutismo - che da qualche angolo proibito compare ogni tanto uno sferragliamento. Che sia un colpo di martello, un ruggito di trapano, un cigolio di carrucola: qualche operaio lavora, ma è isolato e - a guardarlo - sembra più spaesato di te.
Dopo due anni, L'Aquila sembra ferma al giorno del terremoto, come le lancette dorate dell'orologio della piazza, nel rigor mortis delle 03:33.
E nonostante ogni palazzo abbia sì le sue impalcature che paiono il marchio di fabbrica della sopravvivenza verticale, a riconsiderarle poco dopo sei terrorizzato all'idea che rimangano lì per sempre.
"Non esiste un piano per ricostruire la città" ti informa Matteo, e il tuo occhio cade su un manifesto: Muratore cerca lavoro, con tanto di numero di cellulare. Ti sembra un paradosso, lì dove credevi che avresti trovato, se non proprio la rinascita della Fenice dalle sue ceneri, almeno del fervore, del frastuono costruttivo di operai al lavoro. In quel silenzio inappropriato le parole scritte, e appese alle transenne, urlano. E' quello il sangue che vuole ripopolare queste arterie, senza sporcare i manganelli di chi mantiene verticale l'immagine.
Altrettanto provvisorie sembrano le C.A.S.E. nella periferia. Quartieri fotocopia su palafitte antisismiche, squadrati, con ballatoi in legno ad emanare calore umano, e il tricolore che sventola sbiadito. Funzionali come gli appartamenti dei villaggi-vacanze nei dépliant, eppure - se ciò che dovrebbe essere provvisorio nel centro storico tende al "per sempre" - si inciampa facilmente nel pensiero che lo siano anche questi schieramenti appoggiati su pianure steppose. Il signore che porta a spasso il cane nel giardino su misura, la signora che stende i panni sul balconcino rettangolo-tra-i-rettangoli, i bambini che tornano da scuola zaino in spalla sono reali, ma soltanto gli alberelli piazzati lì intorno con equidistanza hanno piantato radici.
"Da gennaio 2011 si ricomincia a pagare il mutuo delle case più gli arretrati" dice Matteo.
"Quali case?" ti chiedi tu con sconcerto, pensando agli involucri del centro storico.
Ma poi Matteo dice anche qualcosa come: "Ho avuto paura di morire, mentre la mia casa tremava e il terremoto mi ruggiva intorno come una bestia troppo più grande di me. E adesso ho imparato a non dare per scontato il tempo, perché è a tua disposizione fino ad un certo punto". E in quel momento tu stai zitto, intravedendo una crepa nel presente che è uno spiraglio nel futuro.
Ma dura poco, perché di crepe reali, oggi, ne hai viste troppe. E nemmeno l'accoglienza delle nuvole imbevute di tramonto può acquietare il tuo ritorno.