Paolo Rossi racconta gli inciampi della vita sociale e politica dell’Italia

par paola russo
lunedì 7 febbraio 2011

Mistero Buffo di Dario Fo (ps. nell’umile versione pop): la poetica del saltimbanco.

Paolo Rossi lo andai a vedere la prima volta a Bari, erano i primi anni Novanta e lui mi apparve come un giullare colorato e irriverente, sagace e brillante. Lo spettacolo mi divertì e annoiò dopo poco: mi sembrò remota la possibilità di ridere per oltre un’ora al ritmo delle sue battute tutte arrotolate intorno all’unico punto fermo dello spettacolo, ovvero la politica e il gran affabulatore che in quegli anni già imperversava tra sondaggi e prime passerelle elettorali.

Paolo Rossi si occupa dell’allora imprenditore edile dal 1982 e probabilmente sempre con più profonda e lucida consapevolezza che, con il tempo, quest’uomo si sia trasformato nel centro propulsore di un continuo e devastante effetto domino tra le coscienze di italiani intorpiditi e sonnacchiosi. Così con Mistero Buffo di Dario Fo (ps: nell’umile versione pop) la semplice satira si fa più alta espressione d’arte, nella maniera originale con cui Paolo Rossi riporta sulla scena testi classici che gli servono da trampolino di lancio per meglio narrare il mondo contemporaneo: “come è successo nel 1969, anche il nostro Mistero Buffo è un’operazione politica.. la nostra è ancora un’epoca in cui difendere dei valori significa difendere la sopravvivenza” e tralasciando toni tanto severi continua “nello stesso tempo recupera insieme al pubblico le radici profonde del teatro popolare”. Questa volta lo spettacolo è una delizia di rimandi culturali, leggerezza e riflessione sorridente sugli inciampi della vita sociale e politica dell’Italia.

La satira è mediata dalla veste poetica che il canovaccio impone. Paolo Rossi è affiancato dalla musica di Emanuele Dell’Aquila che lo accompagna anche in gustose scenette tra i due Misteri Buffi che si annodano tra il primo e il secondo tempo. Così come nell’invenzione di Dario Fo (il Mistero Buffo è un insieme di monologhi di ispirazione biblica, basati sui testi dei vangeli apocrifi o su racconti popolari della vita di Gesù, recitati in una lingua reinventata, amalgama di molti linguaggi) Paolo Rossi racconta, in un misto di veneto e padano, l’affanno di uomini semplici e nello stesso tempo di grande dignità, manifestando sin dall’inizio la volontà di non rinunciare alla possibilità di riscatto che ognuno di noi ha, fosse anche buttandosi a capofitto in avventure imprevedibili, per il gusto di “vedere l’effetto che fa”. 

Così nel primo dei suoi Misteri Buffi racconta della nascita, per volontà divina, del saltimbanco: è la storia sin troppo nota dell’abuso del potente di turno sui diritti conquistati a fatica da un uomo privo di mezzi economici, ma ricco di spirito. Violata la sua casa, ramingo e assetato di giustizia, incontra un disincantato Gesù, alle prese con l’ultima cena e con il suo ultimo miracolo, ovviamente mai raccontato dai Vangeli. L’uomo derelitto si trasforma miracolosamente nell’uomo brioso, dallo sguardo acuto, che nei panni del cantastorie illumina con la sua perspicace analisi della realtà le menti ottenebrate di coloro che sono accecati dalle apparenze. Facendo ben attenzione a difendere il proprio punto di vista “perché la trasgressione – dice l’autore – in questa epoca è la lucidità”. La stessa lucidità che fa riflettere San Giuseppe nel secondo Mistero Buffo, sulla fatica di portarsi dietro il fardello del dubbio, di marito e padre, rispetto alla Storia e rispetto alla sua più terrena sensibilità di uomo.

Deliziosi i battibecchi fra un Gesù ragazzino, iperattivo come lo definiremmo oggi, e un padre che non si azzarda a rimproverarlo esclusivamente per timore di Dio, pur accompagnandolo nella crescita fino all’inizio della sua vita evangelica. I toni dell’azione scenica si accavallano passando dal registro comico a quello più pacato e poi drammatico. Sul palco un ipotetico Gesù: un manichino ammanettato nei panni di un immigrato clandestino che, dopo un tentativo di rappresentazione della Passione di Cristo a cui partecipa una improbabile “divina” attrice,  viene inchiodato su di una croce e issato al centro del palcoscenico. Torna alla mente la storia del saltimbanco, i giochi di potere e avversione della libertà attraverso la mistificazione della realtà, la distrazione dalla verità delle cose e l’illusione delle apparenze.

Paolo Rossi riesce ad amalgamare il riferimento storico, l’annotazione culturale, la citazione religiosa, il fatto contemporaneo, in un crescendo di partecipazione e tensione del pubblico attratto dalla capacità istrionica dell’attore di rappresentare se stesso, mentre scivola nei panni di un suo personaggio. È la magia del teatro, della finzione e della realtà rappresentate nello stesso luogo e a volte nello stesso istante. Una menzione a parte, merita, infine il monologo di Lucia Vasini, la “divina” che riporta tutta l’umanità del Mistero più grande, l’amore tra Gesù e Maria disperata sotto la croce. In padano antico il pianto di una madre che tenta di salvare il figlio e, sconfitta, raccoglie la sua dignità di donna nell’accusa di tradimento verso l’angelo che le ha negato la verità di dolore a cui era predestinata. Una storia troppo terrena per non comprenderla e questa volta senza registri teatrali. Non ha più filtri neanche per il pubblico il modo di dialogare che Paolo Rossi ha scelto per il suo ultimo lavoro. Il passaggio talvolta repentino di luoghi e immagini, pur nella povertà dei mezzi scenici, non perde mai di vista la volontà sferzante dell’autore di difendere sempre, in qualsiasi contesto, la dignità di esistere di ciascuno. Paradossalmente noi siamo “poveri cristi” impelagati in affanni e contrasti eppure animati da qualcosa di divino, di insondabile e misterioso, appunto. Solo uno sguardo allenato, e non incupito da limiti verso la propria libertà, può scorgere, proprio attraverso l’esercizio della cultura, della conoscenza, l’unico modo pacifico per difendere i propri diritti. È il dono dell’arte: la capacità di percepire una scintilla di infinito anche in ciò che allieta. 


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