Oscurare i simboli: la forza (e la debolezza) delle sardine

par Fabio Della Pergola
lunedì 23 dicembre 2019

Oggi i quattro ragazzi che hanno dato vita al fenomeno, a dir poco stupefacente, delle sardine tirano le somme di quello che è successo dalla prima serata di Bologna al punto d’arrivo di Roma. E confermano di non voler darsi la forma di partito.

La strabiliante, e per tanti versi insapettata, risposta di massa ha sorpreso anche loro. Ma non è strano, dopotutto, che ci sia stata.

La Destra appare in crescita perché ha trovato, spostandosi sempre più a destra, un leader che, agli occhi di chi l’apprezza, è carismatico. Ma alla fine è davvero solo un’apparenza: i numeri sono più o meno gli stessi dell’era Berlusconi che unificava una destra solo un po’ meno estremista nei toni e nei valori.

La differenza sta tutta a sinistra dove i tanti distinguo hanno frammentato l’area nei noti mille rivoli, rissosissimi e non dialoganti fra loro, capaci di determinarne l’estrema debolezza elettorale, accentuata dalla fuga nell’astensione da parte dei molti che non trovano una proposta convincente nel ventaglio politico attuale.

È bastato chiamare a raccolta – rigorosamente senza simboli identitari – il popolo di democratici di sinistra-centrosinistra-centro per trovarsi le piazze piene e unite dall’unica volontà di contrastare l’avanzata di una destra illiberale e pericolosa (ma anche di rifiutare la paralisi della sinistra).

La volontà di unirsi – se non altro per opporsi efficacemente all’onnipotenza mediatica del leader leghista – ha preso il sopravvento e si è imposta sulle divisioni, senza peraltro poterle (e nemmeno volerle) annullare: in piazza c’erano probabilmente comunisti duri e puri accanto ai vituperati piddini e ai simpatizzanti grillini, i Papa boys accanto ai radicali, socialisti accanto a liberali e chissà che altro.

Ma sarebbe illusorio pensare che quelle stesse forme identitarie fossero magicamente svanite nel nulla insieme alla sparizione dei simboli.

È bastato infatti che a Roma fosse salita sul palco una donna palestinese, Nibras Asfa, musulmana e velata perché riemergessero subito i distinguo ideologici: il velo è il segno di una convivenza democratica fra identità culturali e religiose diverse, dicono gli uni. No è il simbolo di una doppia sopraffazione patriarcale sulle donne e religiosa sui non credenti che non dovrebbe avere spazio negli spazi pubblici di una società laica né tantomeno esaltati su un palco di sinistra, dicono gli altri.

Sta di fatto che donne di varia estrazione politica (femministe e no), atei razionalisti dell’UAAR o filosofi neoilluministi alla Flores d’Arcais si sono subito inalberati. "Non si risponde insomma alla croce col velo, all’orgoglio cristiano con l’orgoglio musulmano" scrive tranchant Cinzia Sciuto.

Per inciso, personalmente condivido la volontà di alcune donne, qui e là nel mondo, di togliersi il velo sfidando chi lo impone o indossarlo come simbolo di identità culturale laddove viene criticato o addirittura vietato. Ma quello che importa non è quello che pensa un singolo, quanto il fatto che una spaccatura si è determinata fra le sardine proprio su un elemento altamente simbolico.

Per non parlare delle prese di posizione altrettanto divergenti per la presenza, sul palco, del marito di lei, colpevole di cercare visibilità un po’ ovunque: un indiscutibile simpatizzante di Hamas (visti i suoi post su facebook recuperati prima della sospetta cancellazione effettuata alla prima avvisaglia di critiche), organizzazione nata come antisionista e antisemita – nella prima stesura del suo statuto compare infatti anche un hadith che incita all’uccisione non di israeliani né di sionisti, ma sic et simpliciter di “ebrei” – e considerata terroristica dalla Corte di giustizia europea oltre che da altri stati occidentali e arabi. E nemmeno rappresentante, per dirsela tutta, dell'intero fronte palestinese stesso, visto che in passato i contrasti con Fatah portarono a rese di conti decisamente cruente.

In sintesi un riapparire di simboli molto divisivi sul palco di San Giovanni, dopo che a Firenze era stata tolta, proprio per non dare spazio a simboli divisivi, una bandiera rossa. Fra il malumore rancoroso di quella sinistra-sinistra che non intende ammainare i propri simboli storici.

Ingenuità, incoerenza o cambio di rotta della leadership delle sardine?

Troppo presto per rispondere, ma indubbiamente la potenza dei simboli identitari non sarà di facile “contenimento”. Sia che vengano esibiti sia che vengano impediti, parti più o meno consistenti di un qualche ambito della sinistra, faranno i bagagli e torneranno nella loro comfort zone che per piccina ch’essa sia a lor pare una badìa.

Quindi: che fare?

Se lo chiese ai suoi tempi un politico navigato come Vladimir Il'iÄ Ul'janov, detto Lenin, figuriamoci se non se lo staranno chiedendo Mattia Sartori e gli altri tre creatori delle sardine italiane.

L’aspetto più affascinante del loro movimento è stato l’istintivo rifiuto della proposta politica della destra, arrogante quanto prevaricatrice, un “No” ingenuo e infantile, se vogliamo, cioè disinteressato a motivare, argomentare, elaborare, filosofeggiare. E per questo da subito soggetto alle critiche, perlopiù di estrema sinistra, per una mancanza di "contenuti", alias di programmi che propongano soluzioni alla drammatica mancanza d'idee della sinistra.

Dramma della cui mancata soluzione sono i critici per primi i responsabili, con le loro proposte tanto altisonanti quanto impraticabili, i loro (prevedibili) insuccessi a catena e le incomprensibili continue microscissioni che ne hanno devastato la credibilità.

Le sardine non hanno, finora, dato “risposte” (cioè proposte politiche) alla domanda inevasa del popolo democratico. Ma hanno essi stessi rappresentato plasticamente la necessità di porre quella domanda alla classe politica. A cui tocca l’onere di rispondere.

A destra la cosa si risolve facilmente con la classica triade compattante di ogni programma reazionario, dio/patria/famiglia, unita al leaderismo accentuato e poco discutibile dell’uomo "forte" (che affascina poco meno della metà degli italiani secondo un recente sondaggio) e di una concezione della libertà come un semplice "farsi gli affari propri" sempre e comunque.

Ma a sinistra è ipotizzabile una risposta unificante che vada oltre un (peraltro necessario) antifascismo?

Sappiamo che la grande forza insita nell’oscuramento dei simboli identitari (che vengono cioè tolti dalla luce abbagliante del palcoscenico, ma non fatti sparire come se non esistessero e non avessero più alcun senso) ha portato centinaia di migliaia di persone a manifestare – in 92 piazze italiane e 24 in città estere – contro ogni previsione, accomunandole nell’entusiasmo di una ritrovata unità antifascista, antileghista, antirazzista.

Ma esso oscuramento dei simboli rappresenta anche la debolezza del movimento che rischia ad ogni pié sospinto – come a Roma – di vedersi abbandonato in modo pesantemente critico da questi o da quelli: come parlare di temi economici se i liberisti sono l’opposto degli anticapitalisti e dei cattolici che perseguono la "misericordia" dei ricchi verso i poveri insita nella dottrina sociale della Chiesa? E come accennare a temi di politica internazionale se le posizioni – pro o contro Israele, pro o contro Maduro, pro o contro Assad o sull'indipendenza catalana e così via – sono inconciliabili? Come parlare di temi etici se gli abortisti sono invisi agli antiabortisti la cui posizione più dialogante si limita a riproporre, di nuovo, uno sguardo "misericordioso" verso le donne che decidono di interrompere la gravidanza, considerate comunque alla stregua di infanticide? E come proporre di regolamentare il “fine vita” se è ritenuta inaccettabile da tanti che pur fanno parte dell’area di sinistra di cui parliamo?

Al momento non sembra che ci sia una risposta se non quella di evitare le buche più dure, come diceva il cantautore.

Cioè evitare accuratamente i temi più spinosi per non accentuare le divisioni interne, ben note, e spianare la strada alle soluzioni ‘facili’ della destra. I temi sono estremamente complicati e la sinistra è (o dovrebbe essere) consapevole che non esistono soluzioni facili a problemi complessi.

L’unica soluzione è quella di tenere ben vivo questo terreno comune e i suoi spazi. conoscendo la sua fragilità e avendo cura di salvaguardarla evitando costantemente di evidenziare simbologie di parte, sul palco o in rete.

Dopotutto il rifiuto, il No, con cui le sardine sono nate non è affatto l'inconsistente vuoto di contenuti di cui è accusato. Il No - che è rifiuto - è al contrario la prima, fondamentale, reazione a risposte politiche ritenute irricevibili, senza che sia così necessario elaborare una proposta di sostituzione delle stesse. Quindi è – in qualche misura – una risposta anch'esso e una risposta che non lascia scampo a soluzioni abborracciate o contraddittorie. Non è poco.

Ora impedire che la destra conquisti l'Emilia-Romagna è la priorità delle sardine. Purché riflettano bene su quello che fanno. Altri scivoloni come quello di Roma potrebbero intaccare pesantemente la compattezza appena ritrovata.

Foto: taleoma/Flickr


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