Omelie particolari

par La Poesia e lo Spirito
martedì 9 giugno 2009

 Il vangelo si può interpretare in molti modi

Mt 25, 31-46

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando il figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua Gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli.
Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capre e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il Re dirà a quelli che stanno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”
E il Re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che stanno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo servito?” Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto ad uno solo di questi più piccoli non lo avete fatto a me.”
E se ne andranno, questi al supplizio eterno, i giusti, invece, alla vita eterna.

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E’ un vangelo apparentemente semplice.
Non c’è una teologia ostica, di quelle così astratte che sembrano qualcosa di diverso dalla vita.
Qui troviamo semplicemente la fame, la sete, la nudità, la malattia. Cadono barriere e divisioni che separano gli uomini e le donne, talvolta crudelmente. Conosciamo le guerre di religione. Qualche piccolo litigio sulla fede – qualunque fede – , prima o poi l’abbiamo fatto pure noi. Le guerre di religione scandalizzano perché l’etimologia stessa – re-ligare – dovrebbe richiamare qualcosa che unisce, che affratella. 
Questo vangelo dà un suggerimento: quando vogliamo parlare agli altri della fede, non avventuriamoci in discorsi teologici, che spesso dividono, ma cerchiamo di tenerci all’essenziale.

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Il secondo messaggio, però, ne fa un testo difficile, che mette in crisi.
Si parla di condanna senza appello. “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!”.
Verrà il giorno in cui si rivelerà la verità del bene e del male e non ci potremo più nascondere.
Quando Gesù si adira, e accade piuttosto raramente, è a causa dell’ipocrisia: “Guai a voi, ipocriti. Guai a voi, sepolcri imbiancati”. Il maestro vuol condurre a una meta, e la meta è il giorno del giudizio. C’è un giorno in cui l’ipocrisia non pagherà, perché il bene e il male verranno alla luce, definitivamente.
Qui si parla di quel giorno. E’ buono o cattivo? Meglio porsi una domanda più mirata: è buono o cattivo il giorno in cui ognuno di noi sarà se stesso?
Nel discorso escatologico, sulle ultime cose, sembra un giorno terribile. Ma Gesù aggiunge: “In quel giorno alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.”
Saremo liberati dal male dei mali, che è l’ipocrisia.


Questo annuncio dovrebbe entusiasmarci. Nel momento in cui le menzogne si dileguano, si profila l’orizzonte della libertà.

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A ben guardare, ci sono due elementi nel giudizio.
Il primo è chiaro: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere”. Sono le opere buone, le cosiddette opere di misericordia.
L’altro è nelle parole di Gesù:” Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. L’opera buona è indirizzata a lui.
Nella celebrazione eucaristica, durante la consacrazione, il sacerdote pronuncia la preghiera sul pane e sul vino e noi cattolici crediamo che, da quel momento, ci sia la presenza reale di Gesù.
In base al nostro testo, la presenza reale assume un significato più complesso.
Oltre a inginocchiarci davanti al tabernacolo, dovremmo chinarci di fronte al povero che ha fame, ha sete, è nudo, è malato o carcerato.
E’ facile pensare a una presenza reale dentro il tabernacolo, nell’ostia e nel vino consacrati; più difficile, invece, è pensarla nel povero che vive sotto i ponti, con la barba lunga e il tanfo inconfondibile dell’alcol. Se ci si china solo davanti al tabernacolo si rischia di diventare uomini e donne della forma, devoti che disprezzano il povero, spingendolo ai margini della società.
Il Nazareno è stato giustiziato perché ha investito questi punti sensibili. Le implicazioni sociali sono intollerabili, perché toccano la vita materiale.

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Ci si può domandare perché Gesù si identifichi con gli ultimi del mondo.
Sono migliori degli altri? Non sembra, in tanti casi.
Ci si identifica perché sono poveri, e basta. Noi preferiamo accostarci alle persone di successo. Mettiamo Dio nel tempio e costruiamo chiese splendide e curate.
Ma Dio si identifica nelle persone e nelle situazioni disastrose. “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Un uomo avvolto in morbide vesti? No, vi dico, perché gli uomini avvolti in morbide vesti abitano nei palazzi dei re”. Il Dio avvolto in morbide vesti nei palazzi dei potenti non esiste.
Ricordo la sensazione che ebbi quando, in Terra Santa, visitai la chiesa del Santo Sepolcro: nel punto culminante si leggeva: “Non est hic”, non è qui. Andammo a cercare Dio in quel posto sicuri di trovarlo e invece c’era scritto: ”Non est hic”.

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Il giudizio finale, per il nostro testo, non è altro che un incontro. Un secondo incontro, per la precisione: il giudice lo abbiamo già visto; lo rivedremo e ci sorriderà: è bello incontrarsi nuovamente.
Ritroverò l’uomo che vidi sul ciglio della strada, lasciato mezzo morto dai briganti: aveva fame, sete, era malato, nudo, carcerato. Ci guarderemo negli occhi e, in un istante, scoprirò il mio ultimo destino. Forse cercherò ancora, con la coda dell’occhio, il ricco, l’arrivato, l’osannato dalla pubblica opinione. Rivedrò l’epigrafe che mi aveva colpito, nella chiesa di Gerusalemme: “Non est hic”.
Dio mi sorprenderà ancora, come sempre.

Fabrizio Centofanti


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