Omaggio a De Andrè: e il cielo si colora di nuvole barocche

par Francesco Raiola
sabato 10 gennaio 2009

Domani sono dieci anni che il più grande cantautore italiano, Fabrizio De Andrè, è scomparso. Portato via da un tumore ai polmoni durante il tour di Anime salve, il suo ultimo disco.
 
Qualche giorno fa parlavo di lui proprio con un amico, uno che De Andrè l’aveva visto live, una fortuna che i miei 27 anni non mi hanno permesso. Ventisette anni, e un’adolescenza che fino alla sua morte, non me lo aveva fatto scoprire, incatenato tra le parole di Bocca di Rosa sotto lo schermo, in una piazza affollata con un giovane Fiorello, ancora con la coda di cavallo, e una Marinella troppo intensa per un ragazzino di 17 anni tutto rock & punk.
 
Ma la Guerra di Piero no, quella me la ricordo. Quella canzone tristissima che il mio professore delle medie ci fece leggere e studiare, quella che mi faceva piangere a ogni ascolto, e quella che mi ha convinto che il militare no, proprio non volevo farlo, che mi ha dato una consapevolezza della guerra, maggiore di tutte le immagini a infrarossi che arrivavano dall’Iraq.
 
Sono dei ricordi, frammenti, che tornano lentamente e si materializzano in sensazioni, che spesso ti stringono lo stomaco. Sentire quell’accento napoletano strano di Don Raffaè, “Io mi chiamo Pasquale Cafiero e son brigadiero del carcere oi ne’, io mi chiamo Cafiero Pasquale sto a Poggioreale dal ‘53”, sentire la musicalità di quelle parole e avere l’innocenza di non capire di cosa parla, estasiati da “Con rispetto s’è fatto le 3, vulit’ ‘a spremut, o vulit’ ‘o cafè”. Non sapere chi è Raffaè.
 
E non sapere chi è Bocca di Rosa, non capire, quando la si canticchiava da bambini, chi fosse quella donna, ma presi dal fatto che la sentivi sempre in radio, in casa...Bocca di Rosa.
 
Crescere e cominciare a cercare, a scoprire De Andrè, ad andare oltre le canzoni entrate nell’immaginario popolare, addentrarsi nei concept album, navigare tra le diverse età, se così possiamo chiamarle, del cantautore genovese.

 
Scoprire il De Andrè di Tutti morimmo a stento, cercare di capire cosa sono i Vangeli apocrifi e scoprire La Buona Novella, adorando Il Testamento di Tito. Leggere L’Antologia di Spoon River con Non al denaro, non all’amore né al cielo come sottofondo, ascoltare la storia del giudice, o del medico, o del suonatore Jones, ma emozionarsi a ogni ascolto di La Collina (“Dormono dormono sulla collina”), fino all’illuminazione dell’album politico per antonomasia, Storia di un impiegato.
 
Ascolta una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge: prima cambiarono il giudice e subito dopo la legge.
Oggi, un giudice come me, lo chiede al potere se può giudicare. Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?
 
Questa è Sogno numero 2, scritta nel ’73, ma attualissima, parole che tornano alla mente ogni volta che i fatti giudiziari sono in prima pagina...
 
Storia di un impiegato, l’album politico per antonomasia…l’album della disillusione, di un momento fondamentale e tremendo per l’Italia.
 
De Andrè è il poeta che sa raccontare la realtà, ma anche il sogno, capace di riassumere un’esistenza con una frase, e un attimo con una canzone…
Faber ha sempre rischiato, non si è mai accontentato di uno stile.
 
L’uscita di Crêuza de mä era una scommessa, anzi era un azzardo, una sconfitta (in termini di vendita) quasi certa come gli aveva suggerito qualcuno… ma Faber se n’è fregato e ha scritto uno dei suoi album più belli.
 
Se c’è una cosa che mi fa soffrire è la finitezza dell’opera di De Andrè. Non ci sarà nessun album nuovo, forse uscirà ancora qualche postumo in un cassetto dimenticato, ma gli album sono lì. Ecco! Questo è il motivo per cui ancora adesso mi rifiuto di capire completamente Crêuza de mä. Non cerco traduzioni, e capire quel dialetto così stretto mi è assolutamente impossibile ed è una goduria. L’approccio nuovo, la scoperta continua ad ogni ascolto. Percepire un suono nuovo, arrivare a capire una parola in più di quel capolavoro che ha sorpreso tutti, quel coniglio cacciato da un cappello rotto… Guardarlo contorcersi (sempre solo in tv purtroppo) sulla sedia mentre sussurra “e anda e e e anda eooo…” è una stretta al cuore. Sapere che se ne fregava se quell’album rischiava di non arrivare mi mette i brividi.
 
Questo è solo il ricordo di un 27enne che non ha mai visto nella sua vita uno dei più (il più grande secondo me) cantautore italiano e uno dei massimi poeti della sua generazione e non solo. È il ricordo di un ragazzo che ha la consapevolezza che De Andrè sapeva essere l’uomo più chiaro del mondo (“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”), ma anche il più criptico, che era ironico come pochi ("Lo sa che io ho perduto due figli" "Signora lei è una donna piuttosto distratta”), che Dolcenera è una delle canzoni più belle e struggenti mai scritte, ma che se non avesse letto che si riferiva all’alluvione di Firenze mai ci sarebbe arrivato, che Princesa è la Bocca di Rosa moderna, che Geordie non è una canzone da discoteca, che di De Andrè non ne nasceranno più, che domani è morto l’Amico Fragile.



E’ impossibile scegliere la canzone preferita, ma quella che più mi rappresenta in questo momento è questa:


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