Non è ancora tempo di guerra tra Serbia e Kosovo

par Osservatorio Globalizzazione
venerdì 22 ottobre 2021

Tra Serbia e Kosovo è crisi da alcuni giorni per una banalità: una legge del governo Kurti sull’immatricolazione degli autoveicoli che tocca la sensibilità dei serbi. Tra carri armati serbi mobilitati e Alleanza Atlantica che invita le parti alla calma, viene da chiedersi: siamo sull’orlo di una guerra?

di EMANUEL PIETROBON

 

Tra Serbia e Kosovo è crisi da più di una settimana, cioè da quando il governo nazionalista di Albin Kurti ha introdotto una legge sull’immatricolazione degli autoveicoli in entrata in Kosovo che tocca la sensibilità dei serbi, obbligandoli ad esibire una targa kosovara temporanea per la durata del loro transito sul territorio sotto la sovranità di Pristina.

Una banalità, diranno i più, se non fosse che da queste parti, nei Balcani, la patria è molto più di un’idea: è tutto. E per i serbi, che continuano a cullarsi nell’illusione che il Kosovo sia ancora una provincia della Grande Serbia, questa legge è più di un affronto: è un invito al duello.

E il duello, ce lo confermano i fatti di questi ultimi giorni, è effettivamente scattato. Perché nelle strade del Kosovo settentrionale – una regione che costituisce il 10% dell’intera nazione, è composta dalle quattro municipalità di Leposavic, Zvecan, Zubin Potok e Mitrovica settentrionale, ed è abitata al 90% da serbi – è guerra urbana da giorni: blocchi stradali, edifici dati alle fiamme, scontri con le forze dell’ordine, assalti con granate.

I dimostranti chiedono un passo indietro al governo Kurti, che a sua volta risponde loro come i kosovari debbano sottostare ad una simile regolamentazione quando entrano nel territorio serbo, e dunque, almeno per ora, è stallo. Nessuna delle due parti, invero, vuole cedere all’altra.

E nell’attesa che le diplomazie vengano attivate, disinnescando la miccia prima che conduca ad un’esplosione, si assiste al classico giochetto psicologico del “mostrare i muscoli per evitare lo scontro”. Giochetto che, in termini pratici ed esemplificativi, significa ufficiali russi fotografati con gli omologhi serbi in luoghi prossimi al teatro degli scontri, aerei militari e carri armati serbi mobilitati, Alleanza Atlantica in stato di allerta e primo ministro albanese che sbarca a Pristina in fretta e furia per inviare un messaggio sia al fratello minore sia al rivale serbo.

La stampa è in palese confusione e le tifoserie della rete si sono già scatenate. Sembra che ci si stia dirigendo inesorabilmente verso una guerra. Alcuni mettono in mezzo il Karabakh, spiegando che la recente vittoria dell’Azerbaigian sugli aspiranti separatisti filoarmeni potrebbe aver convinto gli strateghi di Aleksandar Vucic a tentare l’azzardo e scongelare questo conflitto assiderato. La verità è che, a meno di sorprese – quali potrebbero essere delle operazioni sotto falsa bandiera e dei gravi incidenti non previsti né ordinati dai registi degli scontri –, tra Pristina e Belgrado si tornerà alla solita pace fredda di sempre. I motivi? Vari. E qui di seguito vi illustriamo brevemente i più importanti. Per quanto riguarda il Karabakh:

Per quanto concerne il Kosovo, invece, si osservi che:

Cosa sta accadendo, dunque? Una crisi concertata utile a moltiplicare pani e pesci sia per Vucic sia per Kurti.

Vucic, verosimilmente, può (e vuole) utilizzare questa escalazione per migliorare la propria immagine presso i serbi – persuadendoli del fatto che non si è dimenticato della questione kosovara – ed aumentare il proprio potere negoziale in sede di trattative – lo sfondo è sempre il medesimo: gli accordi di normalizzazione economica dell’amministrazione Trump –, rammemorando simultaneamente il pubblico locale e internazionale della facilità con cui la Serbia può condurre operazioni di disturbo al di fuori dei propri confini – oggi è il Kosovo, ma domani potrebbe essere l’entità serba di Bosnia.

Kurti, invece, il 17 ottobre sarà chiamato a testimoniare sul banco delle municipali e ha bisogno di compattare l’elettorato attorno ad una minaccia tangibile ed esistenziale – quale è la Serbia – per replicare il successo delle parlamentari – vinte con il 50% dei suffragi – ed egemonizzare la piccola nazione dall’alto al basso.

Il presidente serbo, in sintesi, non ha mai avuto un amico migliore del primo ministro kosovaro (e viceversa), dato che la retorica e le azioni di quest’ultimo – entrambe miranti all’unificazione con l’Albania – hanno il potenziale di rendere possibile l’impossibile: far piacere Vucic ai serbi.

A meno di sorprese, dunque, la crisi tra Serbia e Kosovo dovrebbe rientrare pacificamente con un accordo di compromesso. Tra loro continuerà ad essere pace di piombo, ma questo è inevitabile: non potrà esserci pace imperitura e definitiva fino a che la Serbia non accetterà l’inalterabilità dello status quo venutosi a creare tra il 1998 e il 2008. Status quo difeso armi in pugno dall’Alleanza Atlantica e dagli Stati Uniti, per i quali il Kosovo è, a tutti gli effetti, una linea rossa invalicabile.

Infine, non è da sottovalutare un ultimo scenario, che è il seguente. La Serbia è stata storicamente interessata alle quattro municipalità a maggioranza serba del Kosovo settentrionale, che in passato sono state al centro dei colloqui di pace – le quattro municipalità per la Valle di Presevo, regione serba a maggioranza albanese –, perciò non è da escludere che questa escalazione possa rivelarsi utile al fine della riattivazione delle trattative sugli scambi territoriali.

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