Nike: sfruttare il lavoro in Vietnam e Cambogia

par La bottega del Barbieri
lunedì 5 maggio 2025

Chi compra una maglietta, una felpa, una sneaker firmata dal celebre baffo dovrebbe sapere che dietro ogni cucitura ci sono mani che lavorano 70 ore alla settimana per pochi dollari. E che ogni slogan motivazionale nasconde una verità molto meno eroica: quella di un capitalismo che sa vendere emozioni ma produce sfruttamento.

di Redazione diogenenotizie.com (*)

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Nike racconta al mondo storie di atleti invincibili, motivazione e coraggio. Ma non racconta mai chi materialmente cuce quelle scarpe e quelle maglie che vendono sogni a centinaia di euro. Per trovare queste storie bisogna guardare altrove, ai margini della catena globale di produzione, dove si produce a basso costo e si consuma, spesso, dignità umana.

In Vietnam, la presenza di Nike si appoggia da decenni a subappaltatori coreani e taiwanesi che gestiscono fabbriche in cui lavorano oltre 35.000 persone, quasi tutte donne giovanissime arrivate dalle campagne. Il lavoro, nelle promesse, doveva offrire un futuro. Nella realtà, significa turni estenuanti, paghe al limite della sopravvivenza, zero diritti.

Già negli anni Novanta un’indagine svelò punizioni corporali inflitte alle operaie che sbagliavano a cucire. E nel 2001, Nike stessa ammise pubblicamente che nelle sue fabbriche asiatiche si negava il riposo, si abusava verbalmente delle lavoratrici, si vietava perfino l’accesso ai servizi igienici.

Da allora i comunicati stampa sono cambiati. La sostanza molto meno. La Cambogia, altro pilastro della produzione Nike, racconta storie simili. Nel 2020, oltre 1.200 lavoratori della Violet Apparel sono stati licenziati senza vedere un solo dollaro delle indennità previste dalla legge. Molti producevano abbigliamento per Nike.

La protesta pubblica che ne seguì venne soffocata dal governo autoritario cambogiano. Non si tratta di casi isolati: nel 2014 centinaia di lavoratori tessili manifestavano a Phnom Penh per chiedere salari minimi più dignitosi, ottenendo solo nuove repressioni.

Le promesse di miglioramento restano sulla carta. Le indagini indipendenti raccontano di salari che restano ai livelli minimi di legge, di turni infiniti, di fabbriche che funzionano come luoghi di fatica, non di emancipazione. E quando il governo USA ha imposto dazi sui prodotti provenienti da Cambogia e Vietnam, con tasse fino al 49%, l’effetto non è stato quello di riportare il lavoro negli Stati Uniti. È stato, semplicemente, quello di aumentare ancora di più la pressione sui lavoratori, obbligandoli a produrre di più per meno.

A confermare la persistenza di questo sistema è arrivata l’inchiesta di ProPublica, che ha avuto accesso a un documento prezioso: i libri paga dettagliati della Y&W Garment, fabbrica cambogiana che produceva abbigliamento per Nike. I dati parlano chiaro. Solo l’1% degli oltre 3.700 dipendenti guadagnava quanto Nike sostiene pubblicamente essere la norma: 1,9 volte il salario minimo locale.

Gli altri, la stragrande maggioranza, sopravvivevano con paghe vicine al minimo o poco più. Phan Oem, operaia 53enne, racconta turni fino a 76 ore settimanali, senza pause, senza diritti. Vat Vannak, incinta al sesto mese, ha dovuto marciare sotto il sole per protestare quando la fabbrica ha chiuso lasciandola senza stipendio.

L’inchiesta rivela anche casi ricorrenti di svenimenti sul posto di lavoro: un’operatrice sanitaria della fabbrica ha testimoniato che uno o due dipendenti ogni mese finivano in ospedale per collasso, e che 8-10 lavoratori si sentivano troppo deboli per continuare a lavorare, ogni mese. Troppa fatica, troppo poco cibo, troppo poche ore di sonno. Una catena di produzione che stritola i corpi e le vite mentre promette “progresso” e “responsabilità sociale”.

Nike, dal canto suo, si trincera dietro formule studiate: rispetto dei codici di condotta, costruzione di relazioni di fiducia coi fornitori, miglioramenti in corso. Eppure il sito internet della società madre della Y&W Garment è sparito. I responsabili locali sono irreperibili. E ogni tentativo di chiedere conto della realtà vissuta da migliaia di lavoratori riceve in risposta solo silenzi o dichiarazioni vuote.

Il paradosso è che mentre Nike incassa miliardi vendendo scarpe che inneggiano alla “forza di volontà”, chi quelle scarpe le cuce deve ogni giorno lottare per non crollare a terra. “Just Do It”, dice il brand. Sì, fallo. Lavora, sopporta, collassa pure, ma fallo senza disturbare il marketing globale.

Chi compra una maglietta, una felpa, una sneaker firmata dal celebre baffo dovrebbe sapere che dietro ogni cucitura ci sono mani che lavorano 70 ore alla settimana per pochi dollari. E che ogni slogan motivazionale nasconde una verità molto meno eroica: quella di un capitalismo che sa vendere emozioni ma produce sfruttamento.

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