Negazionismo, antisemitismo e unicità della Shoah

par Fabio Della Pergola
mercoledì 23 ottobre 2013

Come ho già scritto sono contrario alla ipotizzata legge contro il negazionismo.

Anche se lo sono a denti stretti, perché sono assolutamente convinto che l’intenzionalità più o meno latente di un negazionista (più sfumata in uno storico “revisionista”) non sia la ricerca di una verità storica, diversa da quella nota per aver sottoposto a critica gli storici che hanno documentato la shoah (e non solo lo sterminio degli ebrei, ma anche di tutte le altre vittime del nazismo).

Credo che sia in realtà - dal momento che l’intenzionalità latente è anche più reale dell’attività manifesta - un modo di dare fiato, nel negazionismo, ad un sostanziale antisemitismo di vecchio stampo, vestito con abiti seminuovi, magari anche quelli di una ricerca storica svolta con metodologie ”scientifiche” o pseudo tali. Insomma bufale che mirano ad altro.

Nonostante questo sono e resto contrario alla legge per due motivi sostanziali: la sua inutilità ai fini di una corretta interpretazione storica dello sterminio nazista e la sua pericolosità che consiste nel fare di ogni negazionista una vittima - per legge - di quello che, in linguaggio negazionistico, viene detto “dogma olocaustico”, cioè di una interpretazione storica stabilita nei tribunali.

Meno convincenti mi paiono le varie diatribe sulla libertà di pensiero o di espressione e così via. I paesi che hanno adottato legislazioni simili a quella proposta non sembrano essere sprofondati davvero nella notte di ogni civiltà, ma solo in un intricato garbuglìo di questioni storiche che i poveri giudici si sono trovati, non si sa con quale competenza, a sgarbugliare. A parte Irving naturalmente, che era meglio se non andava in Austria. 

Come ha scritto, meglio di me, Aldo Giannuli in un suo articolo: “Sul piano politico, questa norma è offensiva non solo dei diritti di espressione dei negazionisti (che personalmente ritengo essere delle bestie sul piano scientifico, ma che comunque hanno diritti costituzionali anche loro), ma prima ancora è offensiva dell’opera degli storici antifascisti, che si pensa abbiano bisogno dei carabinieri per prevalere in una disputa scientifica”. E questo mi sembra l’argomento prìncipe che taglia la testa al toro.

Ma poi lo stesso Giannuli scivola, a mio parere, su un paio di altri punti (oltre che sull’uso nefasto di un “haimè” anziché “ahimè”).

Il primo (ma secondo in ordine di apparizione nel suo testo) è l’apodittica affermazione che la legge sarebbe “solo un omaggio alla lobby filo israeliana” che penserebbe “di rafforzare in questo modo le ragioni di Israele”, rischiando invece di indebolirle.

È assolutamente evidente - concordo con lui quindi - che una legge in merito al negazionismo non rafforzerà affatto le ragioni di Israele, ma contribuirà alla diffusione dell'idea complottista che ci sia qualcosa di oscuro in esse. Non si vede quindi perché mai la "lobby filo israeliana", che, in genere, non si può definire del tutto idiota, dovrebbe aver sollecitato davvero questo gentile omaggio. Qualcuno può averlo fatto, ma per "lobby" in genere si intende altro, qualcosa di ben più corposo di qualche ultrà della politica da stadio.

La legittimità dello Stato di Israele, in ogni caso, si basa sull’essere stato rifugio - prima, durante e dopo la guerra - degli ebrei in fuga a cui ha dato casa e futuro, distrutti dalla nazistificazione dell'Europa, e non sulla morte nei campi di sterminio di quelli che non riuscirono a fuggire.

Ed è una legittimità che avvalora anche il suo diritto alla difesa, il suo diritto alla risposta militare, il diritto anche di azioni preventive verso qualsiasi work in progress troppo pericoloso per la sua sopravvivenza e integrità (come l’attacco preventivo all’aviazione egiziana nel ’67) o anche il diritto alla costruzione di un muro difensivo che impedisca azioni terroristiche sul suo territorio.

Sono ragioni che ogni stato ha - e quindi anche Israele - a prescindere dalle vicende storiche precedenti che possono essere state più o meno drammatiche.

Tanto per chiarire, non ho mai sentito nessun israeliano dire o scrivere di avere il diritto di impedire a un palestinese il passaggio perché c’è stata la Shoah settant’anni fa. Casomai gli impedisce il passaggio perché il giorno (o la settimana, il mese, l’anno) prima c’è stato un attentato su un autobus pieno di civili finiti in pezzi.

Le ragioni di Israele non sono invece affatto rafforzate da niente - né dalla Shoah né da altra considerazione storica o politica - quando non sono "ragioni", ma torti. La questione alla fine si risolve in questa banale conclusione.

Salvo poi ricominciare daccapo nel momento in cui qualcuno sostenesse, e non sono pochi, che la "pretesa" di Israele di esistere è essa stessa un torto. È il circolo vizioso che fa della questione un problema tuttora irrisolto.

L’uso “politico” della Shoah non riguarda quindi - o almeno non riguarda più almeno dagli anni Settanta - la questione israelo-palestinese ma, è noto a tutti, quella ancor più scottante del nucleare iraniano che, se sviluppato in ambito militare, potrebbe costituire davvero un pericolo di “nuova shoah” per gli abitanti, ebrei e non, dello stato ebraico.

Qui i politicanti israeliani, che come tutti i politicanti, compresi quelli arabi, sono dei manipolatori delle rispettive opinioni pubbliche, usano l’argomento "possibile shoah futura" (che non è quella del passato, ma la sua memoria) come arma di battaglia politica per sostenere posizioni "forti" nel braccio di ferro con Teheran (e per vincere le elezioni dove però non gli è andata granché bene).

Ma, ci avverte Giannuli, “usare il massacro di milioni di ebrei così strumentalmente è una profanazione del loro sacrificio”; terminologia che parla di una “sacralità” non profanabile del “sacrificio” ebraico.

Salvo che non c’è mai stato un “sacrificio” ebraico quanto piuttosto un assassinio su scala industriale di ebrei colpevoli solo di essere tali (e questo rimanda all’altro tema relativo alla “unicità” della shoah); cioè un crimine storico, non un accadimento “sacro”, parlare del quale non è affatto una “profanazione”, ma solo memoria di ciò che è stato; necessaria per evitare che ciò che è stato possa essere di nuovo. Non è un caso che la parola ebraica "shoah" (catastrofe) sia preferita a quell’inflazionato “olocausto”, termine che effettivamente ha implicazioni religiose, queste sì "sacrificali", non per niente mal digerito in ambito ebraico.

Uno slogan usato per la ricorrenza del Giorno della Memoria è “ricordare perché non avvenga di nuovo” che può essere letto in due sensi: “ricordare perché non venga più fatta” o “ricordare perché non venga più subìta”. Lettura non ebraica e lettura ebraica a confronto, ma entrambe legittime.

E ricordare la Shoah davanti alle ambiguità del comportamento iraniano in merito al programma atomico, non mi sembra poi così bislacco. In fondo, ogni tanto è opportuno ricordarlo, acora non è accaduto nulla se non appunto il "memento" che non è poi del tutto fuori luogo se solo si ripensa alle manifeste simpatie heideggeriane - cioè del filosofo di punta dell'hitlerismo - nel Consiglio Supremo per la Rivoluzione Culturale Islamica di cui faceva parte il buon Ahmadinejad, negazionista dichiarato, che per l’appunto usava la negazione della shoah per negare legittimità allo Stato di Israele (e qui si finisce con il riconnettere antisionismo e negazionismo, secondo l'abusato circuito dimostrativo che i sionisti avrebbero inventato l'Olocausto, in combutta con l'Occidente, per accampare diritti sulla Palestina, ragion per cui se l'Olocausto non c'è stato ecco che i diritti cesserebbero di esistere. Nell'insieme, una stupidaggine).

E infine veniamo alla questione complessa della “unicità” della shoah.

“... della sua pretesa unicità - scrive Giannuli - essa rappresenta un unicum. Un unicum? E che vuol dire? Come ogni mediocre studente di storia sa, ogni avvenimento storico è unico ed irripetibile. Forse si vuol dire che la Shoa rappresenta un caso di gravità unica? Ma su quali criteri stabiliamo che il genocidio ebraico, dei rom, degli omosessuali, dei Testimoni di Geova o degli slavi (a proposito: ci sono anche loro) perpetrato dai nazisti sia più grave del genocidio degli armeni operato dai Turchi, dei delitti dell’Inquisizione, dei massacri di Pol Pot in Cambogia, di quello di 10 milioni di congolesi compiuto da Leopoldo del Belgio?”

E certamente i massacri, i genocidi, gli etnocidi, o comunque si vogliano chiamare, sono stati così numerosi nella storia che si rischia sempre di dimenticarsene qualcuno.

Quindi quello degli ebrei è “solo” uno sterminio fra i tanti? Non c’è niente che lo caratterizzi in modo, appunto, “unico”? Non la sua gravità ovviamente; Giannuli ci ricorda a ragione che i belgi sono riusciti a fare di peggio nel Congo colonizzato. E allora cosa fa o farebbe la “pretesa unicità” della shoah nella storia?

E se fosse la sua totale mancanza di un utile? In ogni altro sterminio si rintraccia un utile, a volte esplicito a volte meno, in ogni altra vicenda simile è sempre finalizzato ad un tornaconto: la conquista di un territorio e la “pulizia etnica” dei rispettivi indigeni o l’appropriazione di beni primari o risorse naturali o forza lavoro o la conquista di un luogo strategicamente importante e così via, i tornaconto sono stati tanti nella storia e tutti rintracciabili.

Ma non nello sterminio degli ebrei che inizia, è noto, dopo l’incontro di Wannsee del gennaio ’42, quando agli ebrei era stato ormai sottratto ogni bene. Quindi ammazzarli non solo era inutile, ma anche del tutto irragionevole (e infatti questo è uno degli argomenti preferiti dei negazionisti... “perché mai i nazisti in piena guerra avrebbero distratto uomini e mezzi eccetera eccetera solo per ammazzare degli ebrei ?”... con cui dimostrare appunto, “logicamente”, che lo sterminio non potrebbe mai essere accaduto).

E però lo sterminio è accaduto, compreso quello dei 400mila ebrei ungheresi del ’44 a guerra ormai manifestamente perduta. Ma l’uccisione anche dell’ultimo ebreo, anche fosse l’ultimo giorno di guerra era essenziale nella logica nazista (e anche fascista nell'ultima fase del Fascismo, come a Cuneo il 25 aprile del ’45 quando furono fucilati - dai repubblichini ormai in fuga - alcuni ebrei scampati fino a quel momento a rastrellamenti di anni; ne parla lo storico, definito a suo tempo un po' "revisionista", De Felice).

Questo - che, non dimentichiamolo, fu anche un "culturicidio" - oltre alla metodica pianificazione burocratica della “macchina dello sterminio”, fa l’unicità della Shoah (non certo l’unicità degli ebrei come "uniche" vittime del Nazismo, come si ostina a blaterare qualcuno troppo tonto per rendersi conto di quello che dice, mentre protesta perché non vengono ricordati - di solito, guardacaso, proprio nel giorno della memoria dedicata allo sterminio ebraico - anche tutti gli altri genocidi della storia umana ivi compresi, naturalmente, anche i palestinesi).

Unicità che si forma nel e dal senso di orrore sprezzante che i nazisti provavano alla presenza fisica dell’ebreo - un essere subumano, de-genere cioè "fuori" dal genere umano, non appartenente ad esso - in quanto tale.

Non perché aveva fatto qualcosa o perché ostacolava qualche progetto o perché la sua morte avrebbe portato a qualche beneficio per l'assassino. Ma solo perché l’essere ebreo costituiva di per sé la “necessità” ineludibile di farlo sparire, come se non fosse mai esistito prima, in quanto "diverso".

Ma diverso di una diversità particolare: non come gli omosessuali che proponevano rapporti sessuali ovviamente sterili in una società in cui non fare figli era un attentato allo stato (il "Paragrafo 175" del Codice Penale tedesco non puniva l'omosessualità in sé, ma gli "atti omosessuali"); o come gli zingari, nomadi e improduttivi in una Germania che nel rapporto sacrale fra il sangue e la stanzialità nel suolo aveva stabilito la sua ragion d'essere storica e che dell'essere produttivo per la nazione aveva stabilito il canone del vero tedesco.

Nessuna di queste categorie, che stabilivano le diverse diversità da eliminare, faceva la particolare diversità ebraica. Diversità radicale che faceva dell'ebreo soggetto da eliminre solo per ciò che era, non per ciò che faceva o non faceva.

Questo non è forse pressoché “unico” nella storia? Non costituisce questa fastidiosa "unicità" della shoah che a qualcuno dà sempre un po' di fastidio?

P.S. Nel frattempo divertiamoci con le "drammatiche" vicissitudini di un accanito antisemita che - accidenti! - si è "scoperto" ebreo


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