Moschea di Firenze, un discutibile progetto del luogo di culto islamico

par Fabio Della Pergola
venerdì 11 novembre 2011

Che la nostra Costituzione garantisca un luogo di culto per ogni religione è cosa (quasi) nota. Che purtroppo non garantisca anche progetti di architettura “ragionata” è un dato di fatto sotto gli occhi di tutti. Un caso speciale lo merita il progetto della Moschea di Firenze.

Ieri sera, un incontro al Tiepidarium del Giardino dell'Orticoltura di Firenze, organizzato da una giovane rivista di architettura, ha visto la presenza di locali esponenti politici, dei dirigenti dell’Ordine degli Architetti, dell’Imam di Firenze e Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche in Italia e del progettista di quello che dovrebbe essere, negli intenti, il futuro luogo di culto islamico della città toscana.

 

Sinagoga di Firenze
 

Può essere utile forse tornare su qualche polemica scoppiata in città già da un anno, non tanto sulla necessità o, ancor meno, sulla legittimità (garantita dalla Costituzione) di un centro di preghiera islamico, polemiche che lascio volentieri ai leghisti locali se esistono - e se esistono spero che spariscano presto - o ai talebani cristiani (perlatro smentiti dal loro stesso Vescovo), quanto sul progetto in sé.

Le immagini parlano chiaro anche per chi, come me, non è architetto; il tratto è quello, inconfondibile, delle chiese fiorentine del Rinascimento. Lo sono gli intarsi, le volute, il rosone, la facciata e i due campanili dello schizzo. Confrontatelo con la foto della Basilica di Santa Maria Novella e decidete voi. Solo la cupola che si intravede dietro la facciata parla di Islam e ricorda l’immagine della moschea di al-Aqsa a Gerusalemme.

Ma non è un’improvvisa carenza di fantasia da parte del giovane architetto in causa; è proprio una precisa volontà, che alcuni giornali hanno sottolineato fin da subito, di non “disturbare” da parte della comunità islamica che ha - evidentemente - paura di vedersi respinto il progetto per motivi culturali, religiosi, identitari o quant’altro (purché non dichiarato e ben mimetizzato dietro argomentazioni stilistiche ed estetiche).

Visto che siamo così generosi ad accogliervi - sembra dire l’arrogante fiorentinità immaginata dal progettista – abbiate almeno il buon gusto di diventare belli ed eleganti come noi. Niente di male. Per chi conosce i fiorentini a pensar male ci si azzecca più che spesso. Ce lo ricordava anche Sabina Guzzanti nella parodia di quella amabile signora borghese da salotto buono che amava ripetere “si voleva dare, ma poi si tenne”.

Il risultato è una fredda mancanza di coraggio nella proposta architettonica che si arrende a priori alla classicità dell’Umanesimo Rinascimentale, mascherandosi proprio dietro questioni estetiche e scelte stilistiche: Modernismo-Classicismo è la falsa dialettica cui il progettista ha fatto preciso riferimento nel corso del breve battibecco con una giovane coraggiosa contestatrice dell’ipotesi proposta. Come se l’incontro fra culture diverse fosse questione di stile.

Eppure nel corso dell’incontro i termini esatti erano stati esplicitati. Quando si parla di queste faccende le parole da usare sono interazione e/o integrazione, è stato detto. Cui aggiungerei la forma estrema dell’integrazione che si chiama assimilazione.

E assimilazione è parola già prossima ad un termine agghiacciante che definiamo "annientamento". Sono le due facce di quella stessa medaglia che parla di negazione della diversità cui già la collettività ebraica europea è stata drammaticamente sottoposta fra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del secolo scorso: assimilazione significa "diventare simili" ed è noto che, con l’abbattimento delle mura dei ghetti europei, insieme alla nuova libertà di movimento, gli ebrei si trovarono a perdere in larga misura la loro stessa identità culturale proprio nella volontà, loro e della cultura illuministico-razionalista che l’Occidente cristianizzato si era data, di "diventare simile" a chi ebreo non era.

La diversità si superava con l’appiattimento culturale sul pensiero dominante. Siccome non bastava e una qualche diversità si ostinava a sussistere, si passò alla fase due: lo sterminio. All’annichilimento culturale subentrò l’annientamento fisico. Questo per dire a che cosa può portare l’incontro fra culture diverse se non si sradicano da subito i germogli di intolleranza.

Noi oggi, proprio grazie alla terribile esperienza della persecuzione antiebraica, conosciamo la trappola insita - e l’inganno - nei termini “integrazione” e “assimilazione”. E’ la distruzione dell’identità culturale diversa, cui peraltro la comunità ebraica fiorentina ebbe il folle coraggio di opporsi proponendo, progettando ed imponendo quell’architettura "moresca" della sinagoga che campeggia nel cuore della città, senza che l’anima rinascimentale della stessa ne sia in alcun modo ferita. Anzi arricchendone lo skyline con un elemento verde rame ormai famoso nel mondo quasi quanto la cupola del Duomo.

Il termine di riferimento che deve impregnare di sé il progetto architettonico quindi deve essere altro. Non dire ai fiorentini: “Eccoci, siamo qui e siamo uguali a come eravate voi nel periodo del vostro massimo splendore umanistico”. Non è vero, non è così, è una bugia. Siamo uguali in quanto esseri umani, ma la nostra cultura non è uguale.

Anche l'Umanesimo era impregnato di cristianità. E la cristianità, al contrario dell'Islam, pensa che l'essere umano nasca macchiato dalla colpa originaria, da una peccaminosità, una perversione naturale. Pensa che Dio si possa incarnare in un uomo, che la sessualità sia atto di per sé peccaminoso, legittimato solo dalla procreazione, pensa che la divinità sia una e trina. Eccetera. No, non siamo uguali.

Dalla negazione della diversità non nasce niente. E l’architettura, che ha un’enorme forza espressiva, deve invece parlare di “interazione” di interagire, di mostrarsi, toccarsi, annusarsi, sfiorarsi, parlarsi. Di riconoscere la diversità, di dirsela, raccontarla e mostrarla. E di proporre, se ci riesce, un incontro fecondo, capace di modificare ancora il profilo di una città che tende, se lasciata a se stessa, a morire d’inedia, guardandosi allo specchio in continuazione come una tragica, bellissima donna affetta da un narcisismo patologico.

Coraggio, si abbia il coraggio di affrontare anche le sue unghie aguzze se è il caso. Può darsi che poi ringrazi. Con un semplice cenno della mano, però, o al massimo, con uno sguardo. Non aspettatevi niente di più perché tanto generosa, diciamolo, non è.


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