Morsi, dalla tregua a un possibile negoziato
par Enrico Campofreda
venerdì 23 novembre 2012
Saranno pure stati l’impegno per la gravità del momento e l’ufficialità diplomatica che ne derivava, ma l’opera di mediazione di Mohamed Mursi durante cinque dei terribili otto giorni di bombe su Gaza e missili su Israele è risultata da manuale. Intensa ed efficace come competeva alla missione, che non era però affatto scontata, visto che dalla prova di forza l’Idf e Hamas volevano reciprocamente trarre, e ciascuno l’ha tratto, conferma delle proprie capacità belliche.
Le parti possono affermare di poter proseguire all’infinito lo stillicidio di botta, ben più pesante quella israeliana, e risposta palestinese, resistente e armata stavolta con certi razzi che incutono angoscia alla gente di Tel Aviv. Mentre Mursi restituisce all’Egitto un ruolo politico di assoluta autorevolezza, ascoltato da contendenti e garanti mondiali, Usa e Nazioni unite per primi. Con un profilo, finora, ben diverso dal passo replicante cui aveva abituato il servile Mubarak. Il successo diplomatico di Mursi è certamente frutto di una crisi che gli stessi protagonisti non volevano condurre alle estreme conseguenze, però il rapporto diretto che da Fratello Musulmano il Presidente può giocarsi con la dirigenza islamica di Hamas è un passepartout di cui leadership di primo piano non dispongono.
Altre presenze dirette e indirette: il cuore e le lacrime turche di DavutoÄlu l’emissario di ErdoÄan dall’epoca di Mavi Marmara assai vicino a Gaza, i petrodollari di Khalifa Al-Thani sono oltremodo importanti e dovrebbero far riflettere gli analisti israeliani di come il quadro mediorientale sia in evoluzione e di come la linea dell’aggressione indiscriminata renda sempre più vischiosa e impraticabile la propria politica. Ma l’Egitto del Fratello Mursi riesce ad andare oltre. Costituisce un interlocutore che la Casa Bianca continuerà a interpellare forse più frequentemente dell’alleato israeliano perché il popoloso Egitto e il suo attuale governo sono una porta aperta sul mondo arabo in cammino verso il futuro. Rappresentano società che provano a rinnovarsi, rimettono in discussione il passato dei raìs e delle monarchie, un trono vacillante è quello dell’insipido re giordano Abdallah II che differentemente dalle petromonarchie del Golfo non può allettare l’Occidente neppure col business degli idrocarburi.
L’Egitto mostra velleità di egemonia regionale che deve confrontare col peso di altri Islam, quello turco potente nel consenso interno, nei rapporti con l’Occidente, nell’economia, in apparati di difesa efficaci e rinnovati anche sul versante dell’affidabilità “politica” dei vertici militari. Quello iraniano che da trent’anni ha lavorato per costruire alleanze locali legate ai problemi che proprio l’irrisolta questione israelo-palestinese perpetua, originando nell’area focolai di crisi e risposte resistenziali in più d’una nazione. Hezbollah (per vicinanza confessionale) e anche Hamas per ragioni pragmatiche hanno legato rapporti strettissimi con Teheran in virtù della propria necessità di difesa da quel conflitto sempre latente che continua a essere prassi di ogni premiership israeliana.
Il partito di Hamas che parecchi detrattori giudicavano in crisi, e che l’operazione “Colonna di fumo” ha visto in ottima salute proprio nella relazione con la gente di Gaza, pur martoriata dal pesante tributo pagato al mestiere delle armi, ha finora tenuto aperti i canali con Iran e Siria per ragioni pratiche. Da quegli Stati riceveva sostentamento e sostegno a una resistenza che purtroppo necessita anche di materiale bellico, non solo di vuoti discorsi in cui da tempo si cimenta l’Autorità Nazionale Palestinese inamidata nelle sue gerarchie. E la differenza e il peso politico fra le due rappresentanze palestinesi appaiono tutte anche agli occhi del mondo, non solo in faccia agli addetti ai lavori della diplomazia mondiale che hanno interloquito con Meshaal lasciando Abu Mazen a preparare le sue velleitarie riproposizioni di uno Stato-bantustan all’Assemblea Onu.