Isaf: inglorioso addio alle armi della missione Nato in Afghanistan
par Enrico Campofreda
martedì 30 dicembre 2014
Via dall’Afghanistan, ma non del tutto. Chi torna a casa sono 40.000 militari (32.000 statunitensi) della missione Isaf che conclude il suo ciclo di tredici anni di “guerra al terrore” dagli esisti disastrosi. Ufficialmente ha lasciato sul terreno 3.500 suoi uomini, ma ci sono anche i cadaveri non conteggiati di contractors impegnati in svariate occasioni soprattutto incursioni, rappresaglie, rapimenti. L’intervento ha seminato morte non solo sull’insorgenza talebana, che in alcune province del sud-est ha aumentato una presenza e un rapporto con le popolazioni locali proprio a seguito dei bombardamenti generalizzati responsabili di migliaia di vittime civili. Quante siano state dal dicembre 2001, data di avvio della “missione di pace” Enduring freedom, non è possibile calcolarlo per la difficoltà oggettiva nel raccogliere dati certi. Ufficialmente le statistiche menzionate dall’United Nations Assistance Mission of Afghanistan parlano di migliaia di morti (5.000 solo nel 2002, i dispacci Nato li definiscono “danni collaterali”) di poco inferiori a quelli provocati dai quattro sanguinosissimi anni (1992-96) di guerra civile interna. Le stragi del disonore, come quella di Shinwar compiuta nel marzo 2007 dalla 120a marines che mitragliava passanti sfogando la propria rabbia per un attentato subìto, si sono ripetute nel tempo.
La missione - che attivisti democratici afghani (Malalai Joya o alcuni membri di Hambastagi Party, da noi intervistati in varie occasioni) denunciano come “odiosa occupazione straniera” - proseguirà con medesimi scopi geostrategici. La presenza, prevalentemente americana, sarà denominata Resolute support e dislocherà ufficialmente 12.500 uomini nelle diverse basi aeree (Kabul, Bagram, Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Khost) dove continueranno a partire Falcon e droni per azioni “antiterroristiche”. I militari Nato proseguiranno anche il ruolo di addestratori delle truppe dell’Afghan National Army che ammontano a 350.000 uomini. Soldati finora poco affidabili, infiltratissimi dai guerriglieri talebani capaci di realizzare attentati in caserme blindate della stessa Kabul. Nonostante i pericoli la divisa attira giovani reclute soprattutto per ragioni economiche: guadagnare 400-500 dollari mensili, seppure a rischio della vita, è nell’Afghanistan odierno un’opportunità cui ventenni senza speranze non rinunciano. L’alternativa è far parte delle milizie private dei Warlords, oppure aderire all’insorgenza dei gruppi talebani. Nel primo caso con un salario, nel secondo non sempre. Il panorama che la missione Isaf si lascia alle spalle è quello d’un Paese tutt’altro che normalizzato.
In questi affari hanno mani in pasta quei signori della guerra che come l’uzbeko Dostum è stato condotto alla vicepresidenza della Repubblica. Ovviamente non è il solo, altri compari rientrano negli accordi che vede l’attuale diarchia di Ghani-Abdullah essersi accordata per il rotto della cuffia, dopo un confronto elettorale irrisolto e zeppo di reciproci brogli, e dopo aver distribuito armi ai supporter in una sorta di preparativo di resa dei conti finale. John Kerry ha disinnescato lo scontro con un accordo che potesse continuare a fornire l’alibi di democraticità del sistema istituzionale, una maschera che da oltre un decennio ha condotto in Parlamento e inserito ai vertici dello Stato dei criminali di guerra di lungo corso. Eppure la quadratura del cerchio sembra non funzionare; dopo tre mesi Ghani non è riuscito a stilare una lista di ministri, probabilmente per i veti imposti dalle eminenze grigie che in compagnìa Abdullah si cova in seno. Ora che buona parte delle truppe Nato si ritira un enorme quantità di materiale bellico intrasportabile resterà sul posto. Il programma dei mesi scorsi indicava il rientro di 20.000 container e 24.000 macchine da guerra per una spesa complessiva di 7 miliardi di dollari. Si tratta di materiale bellico imponente e importante che per via aerea da Bagram passerà attraverso la Turchia, giungendo in Germania. E da Kandahar per il Qatar venendo poi caricato su navi Usa presenti in Bahrein. Verso quelle coste salperanno altri cargo dal porto pakistano di Karachi, Armi leggere “made in Usa” incrementeranno, invece, il mercato nero locale, al quale accederanno sicuramente Warlord e turbanti talebani contro ogni piano di sicurezza presente e futuro.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it