Michela Murgia vince il Campiello 2010 col romanzo ’Accabadora’

par Gian Carlo Zanon
martedì 7 settembre 2010

La scrittrice sarda con il suo romanzo Accabadora si aggiudica il Premio Campiello 2010 tra le polemiche sorte per il comportamento da âvecchio bavosoâ di Vespa, nei confronti della scrittrice Silvia Avallone, vincitrice del premio Campiello giovani.

«Acabar, in spagnolo, significa finire. E in sardo accabadora è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di unâassassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. à lei lâultima madre». Così sta scritto sulla quarta di copertina del libro di Michela Murgia. E immediatamente, con questo romanzo, si scavalcano tempo e spazio per essere catapultati da un paese della Sardegna degli anni Cinquanta al mondo dâoggi con le sue domande strazianti e le sue dubbie risposte sul senso della nascita e della morte umana; sul come e quando inizia la vita e quando giunge la morte. Sembrava che il codice napoleonico di inizio ottocento e il protocollo di Harvard avessero chiarito per sempre i confini tra feto e neonato e tra vivo e morto ma la ricerca genetica, le nuove tecniche di rianimazione e il neo revanscismo cattolico hanno messo in crisi certezze illuministiche e dato onnipotenza a coloro che gestiscono lâalienazione religiosa. Sì, perché in questa storia si parla di eutanasia, e, grazie a questo lavoro della Murgia, veniamo a sapere che in quei contesti, ancora pervasi da radicati e invisibili codici sociali, alla vita e alla morte si appone sempre lâaggettivo âumanaâ. «La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico (â¦) ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle».

Il romanzo narra anche di unâaltra consuetudine sociale: quando un bambino non può essere mantenuto dalla famiglia originaria, viene âadottatoâ da qualcuno, allâinterno della società rurale, che lo possa far crescere decentemente. Tutto questo avveniva, probabilmente succede ancora, senza bisogno di magistratura e documenti, ma solo con un tacito accordo tra famiglie. In questo modo, una bambina, Maria Lustru, diviene âfigliaâ di Tzia Bonaria Urrai lâaccabadora di Sereni. «Fillus de anima. à così che chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di unâaltra. Di quel secondo parto era figlia Maria Lustru, frutto tardivo dellâanima di Bonaria Urrai». Straordinario nellâautrice è lâuso del linguaggio: per rappresentare questa storia arcaica, traccia fonemi dal suono netto, come un sasso che batte su di un sasso. Suoni sordi evocano tutto il pathos dellâesistere umano. Da queste parole, che hanno la certezza della terra, nascono immagini nette, finite, come le ombre che a mezzogiorno si nascondono sotto le cose. Le parole dellâautrice varcano il confine tra parola e immagine con fiammate di poesia che incendiano il senso dellâumano vivere e morire dei personaggi.

Tzia Bonaria accoglie Maria nella propria casa riconoscendole ciò che la prima madre le aveva sempre negato: unâidentità umana: «E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che verranno, come imparare lâumiltà di accogliere sia la vita sia la morte».

Ogni romanzo ha un ritmo interno e anche colori che ne dipingono la trama. Questo romanzo è grigio come le giornate di nebbia e buio come gli abiti delle vedove; lâambiente ricorda le ricerche antropologiche di De Martino; lâatmosfera umana è affascinante, cupa e si odono di continuo gli urti delle nubi⦠tuoni lontani che annunciano tragedia. E la tragedia umana è sempre la perdita della propria possibilità, data in sorte dalla nascita, di tenere dentro di sé lâintuizione dellâinfinito divenire; la tragedia umana è lâidentificazione con, nel caso di Maria, la seconda madre, âlâultima madreâ. Difficile rifiutare lâidentificazione con colei che ti ha dato una seconda nascitaâ¦ma non ti permette la separazione dello svezzamento. Maria Lustru cade nella trappola mortale dellâidentificazione tesagli dalla vecchia acabadora. Maria si identifica con la seconda madre e ne prende il ruolo perché come dice lei può fare solo: «Quello che so fare: la sarta». La ragazza sarà sarta: filerà, cucirà, e⦠taglierà. Maria Lustru diventa Maria Lustru Urrai la âsartaâ, colei che fila, cuce, e taglia come le tre Moire della mitologia greca: Atropo filava il filo della vita, Cloto lo avvolgeva e Lachesi lo tagliava allorché la vita corrispondente era terminata.


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