Messico: la cattura, la terza, del Chapo Guzmán
par Fabrizio Lorusso
sabato 6 febbraio 2016
Dal Messico: analisi e retroscena su Ayotzinapa, la cattura del Chapo Guzmán, l'intervista di Sean Penn, l'assassinio della sindaca Gisela Mota. (Terza parte, la prima è qui, la seconda qui).
Capitolo 3. La terza cattura
Peña s’è vantato dei 98 arresti compiuti dei 122 “obiettivi criminali” prioritari nel Paese. L’opinione pubblica invece si chiede come mai i mercati delle droghe illecite siano fiorenti come mai prima e la violenza di omicidi, sparizioni forzate e sequestri di persona non dia cenni di cedimento. La guerra alle droghe, così com’è stata concepita sin dai tempi di Nixon negli anni ’70, è una sfida persa in partenza. Ciononostante il trionfalismo di Osorio Chong, il ministro degli interni, è imperturbabile: “Oggi il cartello di Sinaloa è totalmente un altro”.
“Gli Zetas e il Jalisco Nueva Generación sono polverizzati”, ha chiosato al quotidiano La Jornada provando a ridisegnare a modo suo la mappa del crimine organizzato in Messico. Nel 2015 gli omicidi dolosi hanno superato la cifra di 18mila, in crescita rispetto ai due anni precedenti in cui c’era stato un calo. I desaparecidos sono ufficialmente quasi 27mila, ma Ong e associazioni della società civile ne contano oltre 30mila. L’Ufficio delle Dogane e il Controllo di Frontiera statunitense (CBP, in inglese) in un rapporto del 2010 spiegava che la cattura dei narco-boss non colpisce la dinamica del narcotraffico che, al contrario, vive e si rinnova anche grazie al ricambio dei vertici.
La procuratrice generale della repubblica, Arely Gómez, ha annunciato il ritorno di Guzmán nello stesso reclusorio in cui si trovava prima della fuga, El Altiplano. Ci resterà almeno un anno, mentre s’attendono i risultati dei processi di estradizione negli USA e i vari ricorsi che i suoi avvocati stanno già inoltrando a ripetizione. L’operazione di cattura della Marina messicana è durata alcune ore e il bilancio finale è di un militare ferito, cinque presunti delinquenti uccisi e sei arresti. El Chapo, raggiunto dai marines in una delle sue case-nascondiglio (casa de seguridad, in spagnolo) a Los Mochis, città costiera dello stato del Sinaloa, s’è inizialmente addentrato nei condotti delle fognature per poi riemergere da un tombino nel bel mezzo di un viale e rubare un’automobile. Non era un copione nuovo. Lo accompagnava Orso Iván Gastélum Cruz, alias “El Cholo”, sicario al suo servizio. Con il mezzo sono riusciti ad allontanarsi prima di essere fermati dalla polizia federale. Dapprima i due hanno cercato di corrompere i poliziotti, senza successo. Poi, una volta ammanettati, sono stati condotti in un motel dove i marines li hanno chiusi in una stanza e fotografati in attesa dei rinforzi.
Anche El Cholo è un personaggio interessante, di certo non un novellino: era già stato preso il marzo scorso a Guamúchil, in Sinaloa, e nel 2008 era evaso dal carcere di Culiacán. Il 24 novembre 2012 la reginetta di bellezza Miss Sinaloa venne crivellata durante uno scontro a fuoco tra i pistoleri di Gastélum e l’esercito. Restano ignote le ragioni per cui, dopo l’arresto solo pochi mesi fa, già si trovasse di nuovo in libertà e operativo affianco al suo mentore. La città de Los Mochis, una delle più prospere del Nordovest messicano, vive dal 2009 l’incubo della violenza scatenata dalla scissione tra il cartello di Sinaloa e quello dei fratelli Beltrán Leyva, ormai decadente a livello nazionale ma forte e presente in città. La cattura del Chapo minaccia di far esplodere reazioni a catena che rischiano di mettere a ferro e fuoco l’intera zona.
Trofeo e narco-capitali
Gli USA vogliono El Chapo e ne hanno chiesto l’estradizione il 25 giugno scorso, poco prima della sua fuga. Non se lo sono portati via subito dopo l’arresto per via dello zelo e prontezza dei suoi avvocati che si sono dati da fare sin da prima della cattura. E’ ricercato in sei corti statunitensi per reati di crimine organizzato, traffico di droga, riciclaggio e omicidio, tra gli altri.
Guzmán e Zambada, quest’ultimo ancora a piede libero, sono accusati di 21 reati e le procure sperano di recuperare capitali stimati tra i 4 e i 14 miliardi di dollari, in buona parte ricavati dal traffico di una quantità di cocaina che va da 127 a 465 tonnellate tra il 1999 e il 2014. In Messico un altro grande interrogativo riguarda proprio i patrimoni dei capi estradati. Il rischio di perderli è altissimo, dato che non vengono sequestrati a tempo debito, e dunque la beffa per una società violentata dalla narcoguerra e poi espropriata dei proventi del traffico illecito diventa doppia. La rivista Forbes stimava il patrimonio del Chapo in un miliardo di dollari, chi, o quale governo, riuscirà mai a recuperarne anche solo una quota?
Molti capitali sono già nei circuiti legali, ma non vengono né tracciati né, in caso, sequestrati. Men che meno si riutilizzano socialmente a beneficio delle comunità colpite dalla violenza. E’ il paradiso dell’impunità imprenditorial-criminale, finanziaria e del riciclaggio. Decine di imprese legalmente costituite, anche se legate all’organizzazione criminale, funzionano coll’annuenza o le sovvenzioni dello stato e non sono sottoposte a auditing tributario. L’esperto Edgardo Buscaglia, autore di un libro sul riciclaggio del denaro sporco, sostiene che “non si mette mano al patrimonio del cartello di Sinaloa perché la stessa classe politica ha paura di farlo visto che ci sarebbero ripercussioni sul finanziamento delle campagne elettorali”. Inoltre, sul tema dell’estradizione, Buscaglia ritiene che sarebbe l’ammissione del collasso dello stato messicano e che “se succede, nel processo giudiziario il PM americano si concentrerà sui delitti commessi negli USA e non coinvolgerà la classe politica messicana […] cioè coinvolgerà alcuni imprenditori messicani e statunitensi ma non la classe politica nel suo insieme”.
Tra burocrazie e ritardi, oltre ai dovuti passaggi legali, El Chapo avrà il tempo per provare a fuggire di nuovo trovando spiragli nelle maglie del sistema penale e carcerario. Oppure per negoziare con calma un accordo con gli Stati Uniti da un posizione di forza, magari in seguito a una ammissione di colpa e al pagamento di una multa milionaria. Ci sta lavorando su la sua squadra di difensori: erano ben sette nel 2014, ma ora ne sono stati ratificati solo due. D’altronde un’estradizione fast track violerebbe i diritti del boss e sarebbe l’ammissione dell’impotenza di una lunga serie di istituzioni messicane, ossia il contrario di quanto ha cercato d’affermare il governo dopo la sua cattura.
A cosa starà pensando El Chapo? Era la domanda iniziale. Di certo l’elaborazione di un nuovo piano di fuga è un’ipotesi plausibile, nonostante i notevoli mezzi messi in campo per la sicurezza della cella e dell’intero penitenziario: un centinaio di federali all’esterno e trentacinque custodi all’interno, cinque filtri di controllo e due elicotteri all’esterno e persino un mastino (con la museruola) all’interno. Il boss sinaloense, almeno per il momento, non gode più delle prerogative che aveva in prigione nel 2014, cioè le visite intime di sua moglie, la ventiseienne Emma Coronel, la televisione con casse acustiche e non con le cuffie e incontri più lunghi del normale coi suoi avvocati-messaggeri. In alcune occasioni aveva anche ricevuto visite di una deputata dello stato del Sinaloa, Lucero Guadalupe Sánchez, del partito conservatore Acción Nacional, la quale s’era introdotta con documenti falsi e, secondo le versioni giornalistiche dei fatti, aveva una relazione sentimentale con El Chapo.
Capitolo 4. Estradizione?
La fuga del trafficante sinaloense nel luglio 2015 aveva provocato un problema di stato, comparabile solo alla crisi di legittimità provocata dal caso dei 43 studenti di Ayotzinapa e dalla conseguente emersione delle trame della narco-politica. Quindi, così come era successo con la “versione storica” delle autorità sui 43, la cattura del Chapo viene ora esibita come un successo, un trofeo, ma potrebbe trasformarsi in un nuovo incubo per l’intera classe politica e generare un effetto domino dalle conseguenze imprevedibili. Inoltre per l’evasione dell’anno scorso sono sotto processo solo pesci piccoli dell’amministrazione del carcere e quel gravissimo scandalo sta rientrando senza grossi scossoni.
Bio e un po’ di storia
Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, comunità La Tuna, città di Badiraguato, stato di Sinaloa, 4 aprile 1957. Figlio di Consuelo ed Emilio, copia di contadini, genitori di undici figli, otto maschi e tre femmine, cresciuti in povertà e senza possibilità di studiare oltre le scuole elementari in una casa dal tetto di lamiera. Una storia abbastanza comune nel Messico rurale.
Dopo anni d’esperienze come coltivatore di amapola o papavero da oppio durante l’adolescenza, il “padrino” del mitico cartello di Guadalajara degli anni ottanta, Miguel Ángel Félix Gallardo, prende il giovane Guzmán Loera al suo servizio e questi si fa le ossa nella principale organizzazione per il contrabbando di stupefacenti nel Paese. Tra il 1985 e il 1989 i principali capi dell’organizzazione vengono arrestati e comincia la lotta per la successione.
In Messico l’omonima serie di successo è arrivata alla quarta stagione. Nel 1993, durante una sparatoria tra sicari del Chapo Guzmán e pistoleri degli Arellano Félix, viene ucciso il cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo a Guadalajara. Guzmán è accusato dell’omicidio e viene arrestato in Guatemala prima di essere spedito in Messico, nelle prigioni di Almoloya e Puente Grande, in Jalisco. Qui, paradossalmente, riesce a rafforzare i suoi affari e nel 2001 evade nascondendosi in un carrello della lavanderia.
I dettagli di questa evasione sono ormai un cocktail di storia e leggenda, ma il fatto certo è che da quell’anno Sinaloa inizia la scalata al potere criminale globale. Tra il 30% e il 50% della coca in entrata negli USA passa dalle sue mani. I colombiani, dopo l’intensificazione dei blocchi navali statunitensi nei Caraibi negli anni ’80, la morte del capo del cartello di Medellín, Pablo Escobar, nel 1993 e l’avvio del Plan Colombia, a direzione statunitense, nel 2002, sono progressivamente soppiantati dai messicani. Nel 2000 in Messico vince il PAN, partito di destra che promette grossi cambiamenti, dopo oltre settant’anni di egemonia del populista PRI. Il fiammante presidente Vicente Fox s’insedia nel dicembre di quell’anno. Il suo successore, Felipe Calderón, anche lui del PAN, governa dal 2006 al 2012 e lancia un’offensiva militare contro i baroni della droga conosciuta come “narcoguerra”. Almeno 100.000 morti in sei anni e decine di migliaia di desaparecidos sono le eredità di quella strategia che, però, non è stata modificata sostanzialente fino ad oggi.
Nel frattempo le droghe sperimentano un boom nei mercati “sviluppati” ed “emergenti”, la globalizzazione e l’impennata del commercio interessa anche loro. El Chapo entra nella classifica di Forbes tra gli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio stimato di un miliardo di dollari. Gli anni del PAN sono gli anni in cui Sinaloa diventa “il Cartello”, grazie alle connivenze e alla partecipazione delle istituzioni a tutti i livelli. Nel 2012 il PRI torna al potere e il presidente Peña mantiene i soldati per le strade, continua a ricevere i fondi USA dell’Iniziativa Merida, in diminuzione e criticati ormai anche dal congresso americano, e solo cambia il suo discorso, improntato alla modernizzazione e alle riforme. Le armi made in USA inondano e invadono il Paese. I giornalisti e gli attivisti vengono perseguitati senza tregua, il numero dei desaparecidos cresce a dismisura, la società viene limitata nelle sue possibilità d’espressione, nell’esercizio delle libertà e della democrazia ed è preda della morsa tra autorità inefficienti o corrotte e criminalità organizzata. Due facce della stessa medaglia, frequentemente confuse tra loro o indistinguibili.