Medio Oriente: perché non scoppi l’atomica che sta per arrivare

par Daniel di Schuler
martedì 20 novembre 2012

Mentre israeliani e palestinesi si scambiano razzi, una riflessione sulla necessità sempre più urgente di un nuovo paradigma di relazioni internazionali.

Un giorno, tra cinquanta o forse solo cinque anni, arriverà nel porto di Haifa o di Ashdod, nella stiva di una nave con a poppa chissà quale bandiera, un container come tanti altri, che a quel punto avrà fatto il giro del mondo. Dentro ci sarà un grosso tubo di metallo. La canna di un vecchio pezzo d'artiglieria, accorciata e debitamente modificata. Un lavoro ben fatto, ma alla portata di qualunque meccanico degno di questo nome. Quando il container sarà messo sul molo, accanto a migliaia d'altri, in attesa di essere ispezionato dalle autorità doganali, quel che era stato un cannone sparerà il suo ultimo proiettile: una massa "subcritica" di uranio 235 che andrà a colpire un bersaglio dello stesso materiale, posto dove un tempo era la volata. I due blocchi di uranio si uniranno, ne formeranno uno di massa superiore a quella critica e partirà un reazione di fissione nucleare a catena. Una reazione incontrollata e "rapidamente" divergente, per usare la terminologia dei fisici, che trasformerà quell'uranio (certo, solo una sua piccola parte) in energia oltre che in bario 142, krypton 92 e in tutta una serie d'isotopi radioattivi, come il cesio 137, lo stronzio 90 e lo iodio 13. Tutto durerà un istante, poi Israele sarà un deserto nucleare.

Pensate esageri? Costruire una bomba atomica e recapitarla a destinazione è davvero tanto semplice; l'unica difficoltà, per chi lo volesse fare, sta nel recuperare qualche decina di chili di U-235 o, se disponesse di tecnologie solo di un poco più raffinate, di qualche centinaio di grammi, o al massimo qualche chilo di plutonio 239. Questo è lo scenario che hanno in mente, probabilmente, i governanti israeliani, disposti a fare qualunque cosa pur d'impedire agli iraniani di arrivare a mettere le mani su del materiale nucleare. Alla stessa cosa, però, dovrebbe pensare chiunque si trovi alla testa di una democrazia; quello stesso container potrebbe arrivare in qualunque porto del mondo. E potrebbe contenere qualcosa di infinitamente peggio di un'atomica fatta in garage utilizzando dei residuati; potrebbe portare con sé una bomba all'idrogeno capace di spazzar via un mezzo continente.

La vera domanda non è se, ma quando, accadrà qualcosa come quel che ho descritto, se noi occidentali (e di questo passo nel termine andranno inclusi anche i cinesi) continueremo a condurre la nostra politica estera con le modalità di questi ultimi decenni (non parliamo dei secoli precedenti); se continueremo ad atteggiarci a gendarmi del mondo contando sul nostro predominio tecnologico.

Bisogna solo capire che la tecnologia, qualunque tecnologia, finisce inesorabilmente per diffondersi e permette di fare a più soggetti quel che inizialmente era privilegio di pochi. La polvere da sparo ne è un buon esempio. Prima che si diffondessero le armi da fuoco, uccidere era un mestiere tremendamente complicato; ci volevano anni di allenamento per produrre un soldato o un guerriero competente con la spada, la picca o l’arco. I professionisti dell’ammazzare avevano un tale vantaggio su artigiani e contadini che a Roma bastavano una o due legioni, ognuna forte di seimila combattenti, per tenere sotto controllo province grandi quanto dei moderni stati europei. Oggi non è possibile mantenere il controllo su territori tanto estesi, senza impiegare interi eserciti, per il semplice motivo che uccidere un marine è alla portata di un vecchietto o di un ragazzino, armato con un rottame di Kalashnikov.

Israele, poi, con la sua geografia e demografia, avrebbe tutte le ragioni per cercare di sviluppare un nuovo paradigma di relazioni internazionali. Non so cosa dovrebbe fare, badate bene, ma so che lo dovrebbe fare; che non può pensare di imporre indefinitamente le proprie condizioni solo grazie alla potenza delle sue forze armate: i Kalashnikov, là fuori, sono semplicemente troppi, e troppo facili da recuperare.

Il mio sogno, per quel che può valere? Che riuscisse a creare proprio con i palestinesi, gli altri paria di quell’angolo del mondo, una confederazione più o meno simile a quella elvetica, che fu fatta da montanari, di lingua e religione diverse, accomunati solo dal desiderio di essere liberi.

Di questo passo, invece, Israele sta solo marciando verso la propria distruzione. Capisco benissimo che per fare la pace si deve essere in due, credo di capire i dubbi di una parte della società israeliana come capisco quanto sia difficile restare inerti mentre dei razzi cadono ogni giorno sulle proprie città e, ripeto, non ho proprio idea di quel che si possa fare subito per cambiare rotta, ma è certo che continuando così, prima o poi, in un modo o nell’altro, quell’atomica arriverà. Si potrà fermare l’Iran oggi, ma non si potrà controllare eternamente l’intero mondo arabo. Non solo: con un minimo di fantasia si può ipotizzare, nel giro di pochi decenni, il sorgere di procedure di arricchimento tanto efficienti, e poco costose, da rendere accessibili gli isotopi per usi militari anche a gruppi senza le risorse di uno stato sovrano; a gruppi esattamente come Hamas.

Immaginarlo, mentre quei bambini fatti a pezzi dai razzi, oltre ad essere le vittime di un crimine, distruggono quel poco che resta della considerazione che Israele gode nel mondo, non è né catastrofista, né folle; non è cosa da nemico d’Israele o dell’occidente. È quel che suggerisce la ragione se ci si sforza d’usarla. 


Leggi l'articolo completo e i commenti