Medio Oriente | Il pericoloso corridoio sciita

par Fabio Della Pergola
venerdì 23 giugno 2017

Si riaprono i giochi in Medio Oriente dopo la presunta morte del lìder maximo dell’Isis, il califfo Abu Bakr al-Baghdadi (che un tot di fantasiosi quanto imbarazzanti “opinionisti” ritenne a lungo un ebreo cammuffato da estremista islamico, su imbeccata iraniana rimbalzata dai meno credibili siti americani di bufale tipo Veterans Today).

La distruzione della grande moschea di al-Nuri a Mosul è lì a dimostrare che l’Isis sta sbaraccando la sua presenza sul territorio anche nei simboli - in quella moschea fu proclamato il Califfato - per tornare presumibilmente alla strategia, mai del tutto abbandonata, degli attentati terroristici dei kamikaze.

Fine dello Stato Islamico quindi, come era apparso subito chiaro da quando la Turchia aveva abbandonato la sua pretesa egemonica di stampo ottomano sulla Siria, favorendo l'arrivo di foreign fighters a rinforzare le forze ribelli, e si era allineata alla Russia di Putin nella “lotta al terrorismo”, spaccando così in due tronconi ormai ostili il fronte sunnita originariamente impegnato a ostacolare la formazione del “corridoio sciita”. Erdogan sembra aver piuttosto optato per la formazione dell'asse eurasiatico con Mosca, Teheran e Damasco dopo il fallito (o fasullo?) tentativo di golpe gulenista.

Oggi molti commentatori sono impegnati a decifrare la nuova politica americana dopo il viaggio di Donald Trump a Riyad e Gerusalemme. Miliardi di dollari ai sauditi e rassicurazioni agli israeliani.

Il primo risultato evidente è stato la messa al bando del Qatar (un alleato dei turchi che non dispiace a Teheran, per questo molto sospetto agli occhi sauditi) e subito dopo l’offerta di pacificazione: forniture militari e manovre congiunte della marina americana con quella qatariota. Bastone e carota in rapida successione per ottenere due scopi: interrompere il sostegno dell’emirato a Hamas, ormai prossimo al collasso finale - speriamo prima dell’ennesimo conflitto suicida con Israele - e a un jihadismo fuori controllo. E, soprattutto, indebolire i suoi legami con Iran e Turchia sempre più vicini a Vladimir Putin, il cui consigliere "filosofico" Alexandr Dugin è nel frattempo volato a Erbil, nel Kurdistan iracheno, per ammorbidire le pretese indipendentiste curde (“è più o meno facile dichiarare l'indipendenza, ma è molto più difficile conservarla o difenderla...”). Un servizio di consulenza strategica svolto dal filosofo russo intuitivamente molto gradito a Erdogan (e non solo).

E proprio sulla questione curda si stanno concentrando - come era facile prevedere - le attenzioni di tutti i contendenti. Mentre Dugin lavora, presentandosi con i toni sommessi del “suggeritore” di strategie future (ma all’interno della visione imperiale che gli è propria), Trump non ha esistato a mettere gli stivali sul terreno implementando la presenza americana, in forniture e uomini, a fianco dei curdi siriani. Risultato forse del braccio di ferro interno al suo cerchio magico fra innovativi antisistema (Bannon) e conservatori repubblicani tradizionalisti (Kushner).

L’intento sembra essere quello di usare i curdi per interrompere proprio quel corridoio sciita a cui lavorano russi, siriani, iracheni e iraniani. Un corridoio capace di collegare senza ostacoli Teheran agli Hezbollah libanesi, molto impegnati a fianco di Assad nel caos siriano. Ma anche presenza molto vicina e molto preoccupante per Israele, soprattutto nel caso che il corridoio sciita diventi un’autostrada senza controllo atto alla dislocazione di armi sofisticate iraniane in prossimità dei suoi confini.

Questo è il punto. Se il corridoio sciita si forma, grazie al collasso ormai prossimo del califfato e a un eventuale insuccesso della strategia americana di cinico uso dei curdi (che in realtà potrebbero non avere alcun interesse a occupare aree storicamente arabe), l’Iran e Israele entrerebbero in pericolosissimo contatto diretto.

Le conseguenze potrebbero essere quanto di peggio si possa immaginare e non sarebbe certo l’eventuale soluzione della questione palestinese, grazie al presumibile collasso di Hamas, a favorire una pacificazione del Medio Oriente prossimo venturo.

Le grandi manovre in corso all’interno della dinastia saudita - troppo debole per poter affrontare da sola la potenza iraniana in un eventuale confronto a tu per tu - sembrano avere proprio l’obiettivo di preparare la terra dei Saud a un (agognato?) inasprimento delle tensioni fra Israele e Iran. Avere al suo fianco l’unica potenza nucleare del Medio Oriente - e disposta a usare l’arma atomica in caso di estremo pericolo per la propria sopravvivenza (come sapeva bene Saddam Hussein e come dimostrerebbero certe nuove ricostruzioni storiche relative alla guerra dei Sei giorni) - sembra essere obiettivo primario per i sauditi.

Alla faccia delle millenarie incompatibilità religiose.

 

 

 


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