Marò: quel pasticciaccio brutto

par Trilussa
lunedì 18 marzo 2013

Gelastine Valentine e Ajesh Binki, sono due nomi che non dicono niente. Non lo fanno perché nessuno li ha mai rammentati e i loro nomi forse non sono comparsi in nessun giornale italiano. Loro sono stati indicati sempre come “i due pescatori”, indiani per giunta, vittime delle fucilate dei due marò italiani che ora il nostro governo ha deciso di non consegnare all’India secondo gli accordi che prevedevano il loro rientro dopo un permesso elettorale di quattro settimane.

I marò sono felici di questa decisione tanto che uno dei due l’altro giorno in tv ha addirittura avuto un pensiero esplicito (esplicito perché spero che dentro di loro sentano il dolore per avere ucciso due innocenti, anche se è la prima volta che mi è capitato di sentirlo proclamare pubblicamente) per i due morti, o meglio per le due vedove e per gli orfani di quei disgraziati che probabilmente si erano avvicinati alla petroliera solo con la speranza di potere vendere del pesce ad una nave mercantile.

Personalmente non mi sono mai appassionato al dilemma se la Enrica Lexie fosse in acque internazionali o territoriali ma piuttosto come sia potuto accadere che questo peschereccio sia stato scambiato per un’imbarcazione pirata (piccole barche assai più piccole e molto più veloci) e quale siano le regole d’ingaggio per questi fucilieri che permettano loro di sparare sulle persone, oltretutto agli ordini di un civile, il comandante della nave.

Ci dovranno essere sicuramente prima degli atti di avvertimento tipo spari in aria, spari davanti all’imbarcazione, spari sulla stessa imbarcazione o sulla linea di galleggiamento prima di tirare a colpire le persone. Interventi che nella maggior parte dei casi sono in grado di interrompere qualsiasi azione che non sia di attacco o di offesa. Risulta infatti piuttosto difficile pensare che i disgraziati che volevano semplicemente vendere del pesce siano stati così insistenti da meritarsi una fucilata.

Una riprova di questo è il video passato proprio in questi giorni in cui si documenta il respingimento di un attacco pirata ad una nave italiana. Nel video si vedono benissimo le barche degli assalitori e altrettanto bene si intuiscono le loro intenzioni: barche piccole e veloci piene di uomini armati che difficilmente danno l’idea di essersi avvicinati per vendere del pescato.

Ora è vero che questi pescatori possono anche non avere capito questi avvertimenti, questo codice militare che non gli apparteneva, ma comunque rimangono i dubbi su come sia potuto accadere, anche se a nessuno interessi più di tanto.

Loro sono militari italiani e tanto basta per accoglierli con tutti gli onori e condurli dal Presidente della Repubblica a stringergli al mano. Accolti come eroi, con tanto di fanfara, e nessuno si è domandato (né politici né giornalisti) per quale atto di eroismo fossero stati accolti in quel modo, oltre alla domanda di cosa possa essere successo in quel tragico frangente.

Non che sia tutto chiaro perché alle nostre Autorità è stato impedito di ispezionare il peschereccio ma i dubbi restano, dubbi sul tipo di minaccia che può rappresentare una lenta barca di pescatori per una enorme nave mercantile.

Qui comunque non c’è da dividersi in innocentisti e colpevolisti, qui il problema non si è nemmeno posto, sono militari italiani e gli altri pescatori indiani, tanto basta per prendere posizione. Nessuno che si sia discostato dalla solidarietà con i due militari e dalla richiesta di un loro pronto ritorno in patria dalle loro famiglie, nessun organo di informazione ha posto il problema del reale svolgersi degli eventi.

E chi l’ha fatto, come Giuliana Sgrena, sia pure in modo molto civile rifiutandosi di considerare i due pescatori indiani uccisi come un semplice “effetto collaterale” simile a quello in cui fu ucciso Nicola Calipari in Irak nel 2005 (l’agente dei servizi di sicurezza italiani che si era occupato della sua liberazione), ha subito addirittura minacce di morte e un incredibile attacco mediatico sulle sue pagine web:

Puttana, troia, il tuo compagno è un pederasta del cazzo, meretrice ideologica, fai schifo, torna in Iraq, dateci la Urru vi ridiamo la Sgrena, peccato che non sei rimasta secca. Il tutto condito con vergogna, infame, era meglio se non ti liberavano, Sgrena di merda” eccetera, tanto per dare un’idea.

Una pagina non esaltante della nostra storia, della nostra gente e direi anche del nostro giornalismo.
La ciliegina finale è di questi giorni, il rifiuto di consegnare di nuovo i due militari alle autorità indiane, un voltafaccia, un mancato impegno di accordi internazionali, la faccia feroce di chi pensa di essere il più forte (sbagliando alla grande!), un escamotage che si vuole legato al diritto internazionale.

Chi si è indignato per il disastro del Cermis a causa del mancato giudizio dei tribunali italiani su un sicuro omicidio colposo e di Mario Lozano (l’uccisore di Calipari) non può ritenersi soddisfatto da una soluzione del genere pur non potendo dare giudizi di colpevolezza in assenza ancora di un processo ed un giudizio finale.

Ma il principio rimane, al di fuori dell’episodio dei marò, e cioè il rifiuto di considerare i militari al di fuori di ogni responsabilità, come titolari di una specie di impunità per cui ogni loro atto sia comunque lecito. Perché, dice la Sgrena e non si può non condividere, un omicidio non può e non deve mai restare impunito, anche se commesso da un militare.

Forse, e finisce, “se invece dell’India si fosse trattato degli Stati Uniti nessuno avrebbe osato alzare la voce come nessuno ha osato chiedere di far processare Lozano. È questo discutibile uso delle leggi internazionali per affermare la giustizia o la non giustizia che non penso sia accettabile”.
 


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