Ma non venite a dirmi che Fazio sa fare tv

par L’89
martedì 9 novembre 2010

Cerchiamo di uscire da un malinteso: Fabio Fazio fa della pessima televisione. E’ una presenza imbarazzata e imbarazzante, un megafono progressista arruolato e placido, un corpo molle imbevuto di ipocrisia, la quintessenza dell’happening bonario. Avvezzo, più che sapiente, portavoce di un umanesimo gentile e irritante fatto marketing, per nulla al ritmo della televisione d’oggi, per niente capace di domare i leoni del suo circo. Dai quali, semmai, si lascia domare. Mi complimento.

Lo affligge la totale assenza di una capacità scenica, la volontà creatrice del pensare qualcosa che possa suonare nuovo, o meno vecchio, o al più difforme dal solco tracciato. Esogeno, mai personale. La personalizzazione, semmai, risiede nello svilimento continuo della propria persona, prostrata alle vessazioni della Littizzetto del caso, dell’ospitone da accomodare. Fabio Fazio fa pessima televisione, nulla che dia e nulla che tolga, se si eccettua quel brivido di insopportazione che ti costringe a contemplarne il nulla. Muri, noia, buoni sentimenti Rai.

Il taglio di Vieni via con me è quello del mostruoso programma pre-mondiali di giugno (sempre Fazio), già spin off ideale: un simposio mal’assortito di personaggi di varia estrazione scanzonati e mal gestiti a corredo di un’irritante prosopopea azzurra, esibita coi gridolini del Fazio all’urlo “Capitano!”, inquadrato Cannavaro, “Mister!” alla vista di Lippi. Andò come andò, in studio e in Sud Africa, mitizzare non serve. Perché Fazio è mago nel mitizzare, non potendosi fare, lui, né mito né martire. Per incapacità e sua – propria – esistenza. Sarebbe altro.

E valga per l’intera struttura del programma, del quale non scandaglieremo, scena per personaggio, la validità artistica (comunque molto bassa, condivisa la critica di Cerasa). Né porteremo critiche e lodi ai Saviano Benigni - gettate la pistola e arrendetevi, quella di ieri non era buona tv. Preme ragionare, tuttavia, sul come il programma si sia proposto come battesimo di fuoco della stagione delle celebrazioni, quelle sul centocinquantenrio dell’unità. Brividi e cotica nel Roberto Saviano avvolto da primo tricolore primo – dice – declamante il giuramento della Giovine Italia. Sul massonico. Scene che non vorremmo vedere. A, perché principalmente non se ne dovrebbe riconfermare la plasticità uniforme, di una nazione, a 150 anni dalla sua costituzione – e ok, la nostra è stata una costituzione-burla. perché non godo né fremo nel gridare “Italia!”. Nessuno ha patrie. E la nostra è pure sfigata.

Non riesco a farmi orgoglioso dei moti d’unità risorgimentale, del compromesso linguistico e sociale che ha costretto una penisola nel mediterraneo a farsi monarchia, e poi repubblica. E’ analisi vecchia, è ferita mai più realizzabile, adesso ti riaffiora come strumento di contrasto politico contro parte della maggioranza, col rischio dell’inciampo sulla questione identitaria. Riaffermare il proprio per evitare che altri affermino l’altrui: morirete leghisti, fascisti, tutti onore e rispetto patrio. Italiano, permetterete, ci piacerebbe sentircisi a modo nostro. Nessuno.

Compromessi. Che poi, nel brivido, l’intenzione sarebbe quella della catarsi. Sentirsi una sola cosa, diversi dal modello Grande Fratello, dal sistema Endemol - casa di produzione di entrambi i programmi. In contemporanea. Dodici e passa milioni di spettatori. E non è un caso che Benigni, nella requisitoria cantata alle proprietà del premier, non abbia fatto cenno a quest’ennesima e ingombrante proprietà – lì di casa. Una catarsi, sì, per spettatori e palco, per comici allontanati e Fazi compromessi, ma da mo'. Tutti, compromessi. E così per noi, per qualsiasi altro Fini, un qualunque Vendola declamatorio: capitelo. “E’ troppo tardi per sentirsi nuovi”.


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