Lo scarso interesse per la questione Palestina
par Fabio Della Pergola
venerdì 19 ottobre 2012
Fine del discorso. Sembrerebbe questa la conclusione cui non è strano arrivare, parlando di Palestina.
È un’affermazione provocatoriamente forte, probabilmente un po’ sopra le righe, ma non del tutto strampalata se si tiene conto di tre fattori.
Il primo è la nuova campagna elettorale in Israele dopo lo scioglimento del Parlamento per volontà di un Netanyahu deciso a essere incoronato Re d’Israele alle elezioni anticipate di gennaio; campagna in cui si parla a fondo del pericolo iraniano, ma senza occuparsi minimamente di Palestina.
Il secondo è la campagna elettorale americana dove Obama e Romney se le danno di santa ragione occupandosi di lavoro, energia, economia, e anche di politica estera, ma senza occuparsi minimamente di Palestina.
Il terzo è la crisi siriana e, più ampiamente, le (ex) primavere arabe che stanno un po’ ovunque volgendo verso l’inverno del loro scontento, più che altro per la sempre più evidente delusione del mondo femminile, marginalizzato e umiliato dopo essere stato al centro dei movimenti di ribellione un po’ ovunque. E anche qui, nei paesi che si sono liberati di dittatori in sella da decenni, si dibatte di economia e di diritti civili, del difficilissimo rapporto tra islam e libertà individuali, di lavoro e di femminismo, ma mai di Palestina.
Insieme a ceceni e tibetani ad esempio e uyguri e curdi (anche se dei curdi un po’ si ricomincia a parlare soprattutto per il loro ruolo nel calderone siriano).
No, non è strano. Il problema palestinese avrebbe potuto essere risolto ragionevolmente decenni fa se lo scontro non fosse stato strumentalizzato e alimentato per questioni di politica internazionale che interessavano il Cairo e Damasco e di sicuro Beirut e Amman e Ryad; certamente Mosca e Washington. Forse perfino Pechino e, più tardi, Teheran.
Tutto da discutere invece che uno scontro protratto per decenni fosse davvero nell'interesse del popolo palestinese che ha pagato lo scotto più duro per gli interessi politici di altri. O nell'interesse del governo di Gerusalemme. Forse solo qualche iper-esaltato della Grande Israele biblica poteva volerlo e cercarlo e - ma siamo già negli anni di Netanyahu - la politica dell’estrema destra ne ha approfittato.
Estrema destra andata al potere dopo la disastrosa guerra del Libano 2006, quando un leader titubante, assillato già da problemi di illegalità personali e spinto da un’opinione pubblica inferocita dall’aggressione di Hezbollah sul confine, scatenò un attacco che l’esercito non riuscì a portare con la consueta e prevedibile facilità. La resistenza inaspettata e robusta delle milizie islamiste mise i soldati con la stella di David in una situazione difficile, acuita dall’impreparazione clamorosa della logistica.
Vedere uno degli eserciti ritenuti più forti al mondo combattere senza avere acqua da bere, inchiodato a pochi chilometri dal confine per giorni e giorni provocò contemporaneamente lo scatenarsi distruttivo dell’attività aerea sul Libano, una rivalsa per la sostanziale sconfitta a terra, ed il collasso - che sembra definitivo - di qualsiasi ipotesi politica che sapesse di pacifismo.
L’opinione pubblica israeliana ha visto nell’attività di Hezbollah il primo attacco, per quanto su delega, da parte dell’Iran sciita e ha avuto la cupa sensazione di essere veramente in pericolo, più di quanto non sia stato nei decenni precedenti (fatta esclusione solo per la guerra dello Yom Kippur), per il programma nucleare di Teheran, sui cui intenti pacifici molti tuttora dubitano; questo mix di guerra vera e guerra ipotizzata non ha più lasciato un minimo spazio politico alla sinistra. E, di conseguenza, al problema palestinese, di cui solo la sinistra si è in qualche modo occupata nel corso degli anni.
Oggi l’attenzione non è più rivolta a Ramallah, ma a Teheran. E così anche l’attenzione di Washington o di Mosca. Il Cairo ha le sue beghe tutte interne nella difficilissima fase di passaggio dal regime ad un futuro ancora imperscrutabile. E tanto più Damasco, con Beirut e Ankara coinvolte direttamente nella crisi siriana.
L’anno scorso la responsabile della Croce Rossa internazionale per Gaza dichiarò che non esisteva alcuna emergenza umanitaria nella Striscia; non so se sia vero o se sia stata una dichiarazione “politica”, non tecnica. Ma è certo che anche questo ha dato il suo contributo al disinteresse generale verso i palestinesi e le loro aspirazioni.
Restano solo i pochi naviganti delle Flotille, rari elementi residuali (anche ebrei) di una sinistra scomparsa, a tentare di richiamare l’attenzione su un “assedio” di Gaza che non esiste (se non per volontà dei governanti egiziani che hanno le chiavi della porta di Rafah, esattamente come ai tempi di Mubarak) o su un blocco navale, legittimo dal punto di vista del diritto internazionale e irrilevante per l'economia della Striscia, come scritto a suo tempo nel rapporto Palmer sul casus della Mavi Marmara; insieme ai sempre più sporadici razzi sparati per andare a schiantarsi sulla sabbia del deserto del Negev, segno manifesto di una politica tanto impotente quanto controproducente.
Se il “pericolo” non esiste più, fatto salvo un possibile coinvolgimento di Hamas in un ipotetico conflitto israelo-iraniano dalle conseguenze che potrebbero essere letali per il popolo palestinese dei Territori e di Gaza, quale occasione migliore perché allo Stato di Palestina sia data finalmente la possibilità di nascere? Magari senza più le assurde pretese di “porre il nemico nel nulla” come recita lo statuto fondativo di Hamas, ma almeno esistente?
Quale altra prospettiva, se non lo stato unico binazionale che alcuni apprezzano in nome del superamento di una concezione di stato 'etnicamente' connotato (ma con la prospettiva per gli ebrei di diventare di nuovo una minoranza nel giro di pochi decenni) e che altri rifiutano categoricamente ritenendo impossibile la convivenza?
Cogliere l’occasione e fare così un regalo alla politica dei "due popoli-due stati" e quindi alla Palestina, ma anche ad Israele e - perché no? - al mondo intero. Ma ci vorrebbe un po' di lungimiranza che nessuno sembra avere, né a Gerusalemme né altrove.