Libia: arginiamo Parigi, ma cacciamo Gheddafi

par Federico Punzi
mercoledì 23 marzo 2011

Sono le misere gelosie tra i Paesi europei a stagliarsi sulle ceneri della leadership americana. L'Italia ha ragione nel pretendere un comando Nato della missione, ha torto nel porre limiti alle operazioni, ma in questo sembra in linea con le ambiguità del presidente americano Obama.

Se si tratta di arginare il protagonismo francese - che ha tutta l'aria di essere dettato non da un afflato umanitario, ma dalla volontà di sostituire la propria influenza a quella italiana in Libia e dall'ambizione personale di Sarkozy, che cerca di rianimare la sua immagine nell'imminente corsa alla rielezione - ok; se è un modo per tornare su una posizione "neutralista" e prolungare surrettiziamente il regime di Gheddafi, decisamente no, perché ciò non risponde più ai nostri stessi interessi e prima ce ne convinciamo, meglio è. Invece, nel centrodestra stanno confondendo la legittima reazione al protagonismo francese con le sorti del raìs. E' certamente vero che siamo di fronte ad un intervento per lo più di carattere "neocoloniale" da parte di francesi e inglesi, che mirano a sostituire la loro influenza alla nostra in Libia, ma la soluzione non è piangerci addosso e addolorarci per Gheddafi. Il punto è un altro: che il Colonnello cada, e il prima possibile, è ormai anche nel nostro interesse, dal momento che il ritorno a qualcosa che somigli anche lontanamente allo status quo ante è impensabile e quindi il nostro comodo "posto al sole" in Libia è perduto. Dobbiamo riconquistarlo non prolungando l'agonia di Gheddafi, bensì non lasciando il comando delle operazioni - belliche e politiche - ai francesi. Questa è la sfida, rispetto alla quale l'alternativa è ritrarsi, rinunciando però in partenza a riguadagnare le preziose posizioni perdute in Libia.

Ad aver lasciato campo libero ai francesi purtroppo siamo stati noi stessi, paralizzati - a quanto pare ancora oggi - dall'imbarazzo per la nostra (ex?) amicizia con Gheddafi. Guardiamo agli Stati Uniti di Obama, a quanto velocemente hanno scaricato il loro miglior "amico" in Medio Oriente, Mubarak, quando si sono accorti che lo scenario era cambiato per sempre. Dobbiamo riconoscere, come fa non da oggi Mario Sechi su Il Tempo, che Sarkozy «è stato svelto nello scavalcarci perché ha capito qual era lo scenario»: in breve, che le rivoluzioni in Tunisia, Egitto e Libia stavano aprendo lo «spazio geopolitico» del Mediterraneo a chi fosse stato più rapido nel riempire quel vuoto; e che gli Stati Uniti sarebbero stati refrattari a svolgere un ruolo da protagonisti nella crisi libica. In questo spazio avremmo dovuto infilarci noi, invece Sarkozy ci ha preceduti. Ora non possiamo far altro che rincorrere, non negare la situazione.



Di fronte a quanto stava accadendo, e alla Francia che puntava chiaramente a sostituire l'Italia nei rapporti con la nuova Libia, due erano le possibilità per il nostro governo: o sostenere dichiaratamente il Colonnello, con tutto quello che avrebbe comportato, e senza nasconderci che comunque il suo destino sarebbe stato segnato nel medio termine; oppure, contendere ai francesi il dopo-Gheddafi, ma puntando decisamente a favorire il "dopo". Tertium non datur. Per questo è giusto sollevare un problema di comando, ma sarebbe sbagliato restare nell'ambiguità sull'obiettivo ultimo: cacciare Gheddafi prima possibile.

Questa guerra è cominciata tardi e male essenzialmente per responsabilità americane, per la debolezza della leadership di Obama. La confusione sull'obiettivo ultimo della missione infatti è innanzitutto la sua. Da una parte ripete ogni giorno che nessuna risoluzione dell'Onu autorizza a cacciare il raìs, quindi che l'obiettivo della missione non è rovesciare il regime, dall'altra aggiunge che il dittatore «se ne deve andare», non si capisce bene come. Indica una sottilissima «distinzione» fra l'intervento militare autorizzato dall'Onu e la politica del suo governo. La risoluzione 1973 richiede la protezione dei civili dalle violenze di Gheddafi, dunque l'obiettivo della coalizione non è il «cambio di regime», ma ciò non toglie che la Casa Bianca ritenga che «Gheddafi deve abbandonare il potere». Eh sì, sono lontani i tempi della chiarezza cristallina di George W. Bush. Solo con le lenti dell'ipocrisia si può fingere di non vedere che laddove la risoluzione autorizza «ogni mezzo necessario» a proteggere la popolazione civile, de facto autorizza - se necessario - anche la rimozione di Gheddafi dal potere. Ma secondo Obama l'intervento armato si dovrebbe limitare a proteggere i civili, mentre le sanzioni dovrebbero bastare a far cadere il regime. Questo per lasciare almeno all'apparenza nelle mani dei libici il loro destino, come in Egitto nel caso di Mubarak, evitando di impegnare gli Usa in un vero e proprio "regime change", che ricorderebbe troppo Bush. Se è lecito dubitare che una no-fly zone possa provocare da sola la caduta di Gheddafi, figuriamoci le sanzioni. O si tratta di ipocrisia liberal allo stato puro - e a questo punto c'è da augurarselo - oppure c'è da dubitare delle doti politiche del presidente Usa.

Stupiscono infine certe obiezioni sollevate nel campo del centrodestra, che somigliano in modo sospetto a quelle sollevate dalla sinistra ad ogni guerra americana: perché in Libia sì e in altre parti del mondo no? Il fatto che di dittature anche più minacciose e di genocidi sia pieno, purtroppo, il mondo non significa che bisogna rimanere con le mani in mano anche quando c'è la possibilità di intervenire. E' il solito trucco dialettico: siccome si dovrebbe intervenire ovunque, o comunque "ben altre" sarebbero le situazioni che richiederebbero un intervento, allora non si interviene mai.


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