Liberismo di convenienza, oggi

par Lionello Ruggieri
sabato 11 febbraio 2012

Il liberismo di cui ci parlano oggi politici, industriali ed economisti è un liberismo di convenienza.

La vera idea liberale che non è mai stata estremista e non si occupa solo della vita economica. Basti pensare che Vilfredo Pareto, uno dei padri del liberalismo europeo, sosteneva che è auspicabile un mondo economico basato sulla libertà d’iniziativa e sulla concorrenza, a patto, però, che si sia tutti sulla stessa linea di partenza.

Un’idea che oggi farebbe accusare di comunismo spinto chiunque la sostenesse. I liberisti di tutto il mondo, poi, appena scoppia una crisi corrono a mettersi davanti all’uscio dello Stato a chiedere che impedisca al mercato di regolarsi da solo. Per essere liberisti invece, a mio avviso, servono tre requisiti, solo tre, ma tutti essenziali.

Il primo requisito del liberismo: l'egoismo

Il primo è di voler vivere in un mondo dove ognuno pensa a se stesso, dove la vita è una perenne lotta per arraffare il più possibile, per accumulare sempre più, alla ricerca di ogni vantaggio, fissi sul proprio vantaggio, un mondo in cui “ognuno sia pronto a tagliarti la mano”. Non so come definire questa qualità, non so trovare una parola che possa definire una società che viva su questo principio di vita e quindi invito ognuno a trovarla.
 
Mi sovviene la parola "egoismo", ma non si può essere permeati di tanto egoismo da non sentire, almeno un po’, il desiderio, il bisogno di dedicare una parte di se stesso a capire, ad aiutare chi per destino, per linea di partenza, per incapacità, per mancanza di costanza o minore spietatezza non riesce a primeggiare, ad arraffare tutto quanto gli abbisogna. Nessuno. Possiamo chiamarlo egoismo?
 
Il secondo requisito del liberismo: la presunzione
 
Il secondo requisito consiste nella fiducia in se stessi, nella convinzione che, in quella società così competitiva, si farà parte dei vincenti, di quel numero ristretto di soggetti che, alla fine della lotta, risulteranno vincitori. Occorre la ferma e costante convinzione di essere il migliore o tra i migliore di quei milioni e milioni (o miliardi) di esseri pensanti e raziocinanti che, con tutte le proprie forze, stanno cercano di conquistare lo stesso premio, la stessa sempre insufficiente ricchezza, insufficiente per definizione perché, secondo il liberismo, fermarsi, accontentarsi è sbagliato e sciocco. Peggio: è contro la stessa natura dell’Uomo.
 
Perché senza l’istinto all’eterna lotta, senza l’incontentabilità, con l’uomo capace di contentarsi, di sedersi sulla meta conquistata senza null’altro desiderare, la società liberista non funziona, non può dare lo sviluppo, la capacità di accumulare, di arrivare più in alto che è il fine e il mezzo che i liberisti ci presentano. Ma con questa visione, se non si è convinti di essere i migliori, i più forti, i più bravi, anzi, no, se non si è "i migliori, i più forti e bravi" si è condannati a rimanere in coda, nel gruppo dei poveri degli sfigati, dei condannati all’anonimato.
 
Perciò, per scegliere questa forma di società, è indispensabile avere la convinzione e la certezza di essere superiori agli altri. Presunzione? Forse. Ma, se è presunzione, è una presunzione senza pari, capace di farci guardare sette miliardi di esseri umani e sentirsi il migliore. O quasi. Sentire che almeno sei miliardi e mezzo non sono alla nostra altezza, sono inferiori. Una presunzione al limite della follia. Una presunzione come quella che un Papa qualche decennio fa attribuì a satana.
 
Il terzo requisito del liberismo: la stupidità
 
Il terzo elemento del perfetto liberista è la assoluta incapacità di capire che uno Stato veramente liberista non può funzionare e che più è liberista meno funziona.
E' semplice, chiunque può e dovrebbe capirlo. Lo Stato perfettamente liberista è come una nave o un’azienda in cui non c’è un comandante o un direttore, è una struttura in cui si è stabilito che la cosa migliore per raggiungere la meta è che ognuno tenti di fare quello che ritiene utile per se stesso perché da tutto quel coacervo caotico di tentativi falliti o di successo alla fine verrà fuori quello che serve per arrivare dove si vuole.
 
E’ di tutta evidenza che mai succederà e che, se per una strana e mostruosa concatenazione di eventi, dovesse accadere, sarebbe frutto di un quantitativo spropositato di sforzi, di una dispersione illimitata di fatiche e ricchezze. E di un costo sociale spaventoso. Se poi parliamo di uno Stato, di uno Stato leggero come quello profetizzato dai liberisti avremo una struttura statale leggera e dai bassi costi in cui, però, alle pensioni penseranno dispendiose assicurazioni private, alla sanità pure, alla sicurezza agenzie di sicurezza, all’istruzione costose scuole private e alla difesa i contractors, uno Stato cioè ottimo per i ricchi e inutile sia per loro che per i poveri.
 
Perché uno Stato che non dà previdenza, assistenza, sicurezza, istruzione e difesa è uno Stato inutile, uno Stato che costa poco e non serve a niente. E non sono solo io a pensarlo: lo pensano anche i più maniaci dei friedmaniaci, gli economisti della scuola austriaca anarco-liberista che, infatti, continuano a difendere l’idea del liberismo accompagnandola alla richiesta di abolire lo Stato. Perché giustamente lo trovano inutile. 
 
Pure loro non lo capiscono e per non capire una cosa del genere occorre proprio essere stupidi, ma di una stupidità senza confronti e senza limiti.
 
Egoismo, presunzione e stupidità: ecco le tre qualità necessarie. Non dico certo che i liberisti siano così, che ogni liberista o sedicente tale sia così. Quello che dico è che le ha e deve averle il liberista perfetto, Milton Friedman per esempio e i suoi Chicago Boys.

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