Lettera di un ateo

par Leo Cusseau
lunedì 18 gennaio 2016

Chiedetemi di che religione sono, vi dirò che sono ateo. Atheos, senza dio. A qualcuno parrà una bestemmia, un'enormità, qualcosa di incomprensibile. Alcuni avranno un riflesso paternalistico, una sorta di pavloviano bisogno di proteggere con parole amiche chi non ha trovato la via, la pecorella smarrita nel caos del mondo moderno: beh, si, anche io non sono molto praticante... (osservando con sguardo indagatore la reazione, per carpire ulteriori dettagli evidentemente necessari alla comprensione). Poi: ma come ateo, in che senso?

Altri ancora, nello sforzo di ricondurre a coerenza simile affermazione: ma perché, in famiglia tua...? con l'interrogativo che si perde in un pudico silenzio, come si trattasse di qualcosa di trasmissibile e si potessero così scovolare sopite storie di sofferenza familiare.

Beh, lasciatemelo dire, un ateo è ateo e basta. Non ci sono motivazioni troppo diverse da quelle per cui la maggior parte delle persone che incontro ogni giorno si definisce di religione cattolica, non ci sono particolari perché, nella storia di vita di un ateo qualsiasi. L'ateismo non è l'esito di un qualche trauma infantile. Non ci sono nemmeno conseguenze particolarmente gravi, vi dirò, nell'essere ateo: un ateo non è assalito dal materialismo, intriso di secolari vizi, dedito ai piaceri in una spirale di edonismo senza freni e senza virtù, non più e non diversamente dagli uomini di fede, dei quali ne esistono di ogni sorta.

Non credo nella sopravvivenza di forme di percezione alla morte del nostro corpo, non credo alla permanenza di ciò che la religione cristiana chiama anima, ad un aldilà in cui possa in qualche modo proseguire una vita ultraterrena. Credo che non esista alcun dio, alcuna entità creatrice della realtà che abitiamo, alcun disegno intelligente, nessuna volontà ordinatrice sovrumana.

Eppure, credetemi, non sono un arido deserto umano. Vivo nella scoperta continua delle meraviglie della vita, in ogni brumoso orizzonte, nei profili azzurri dei monti, nell'aria pungente dell'alba, nei visi di pietra di vecchi contadini, nei sorrisi amici degli sconosciuti. Cerco, nel mio piccolo, di fare del mondo che abito un posto migliore; c'era una bella campagna di comunicazione, qualche anno fa, dell'UAAR (Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti) che diceva: “La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona, è che non ne hai bisogno”. Credo nella forza di ciò che unisce: viviamo tutti, di qualsiasi religione o cultura siamo, le stesse cose umane, siamo tutti capaci dei più nobili gesti e delle più meschine miserie.

Sono sensibile verso chi è minoranza, chi è schiacciato dai più forti, chi subisce ingiustizie o sofferenze di qualsiasi natura: d'altra parte gli atei hanno sempre fatto buona compagnia alle varie minoranze tartassate nella storia degli uomini, con le quali è naturale empatizzare. Gli atei sono fra quelle minoranze la cui voce non ha pulpiti da cui parlare, da cui condannare persecuzioni, nonostante che in molti Paesi del mondo l'ateismo sia punito con la pena di morte, marchiato come abbandono della fede, apostasia. Un reato senza prove, massimamente discrezionale per il potere religioso: Ashraf Fayadh, poeta palestinese, è stato condannato a morte in Arabia Saudita “per aver dubitato dell'esistenza di Dio”, in ragione dei suoi scritti.

Immedesimatevi: pensate a che cosa può significare, per un ateo, il fatto che la legge di uno Stato possa essere influenzata e determinata da un credo religioso, da un insieme di valori assoluti non interpretabili, se non da una gerarchia religiosa che riproduce se stessa. La vita dell'individuo -di qualunque credo- è sottoposta ad un insieme di regole la cui legittimazione non risiede in una carta di valori fondamentali -come una Costituzione- redatta dalla collettività sulla base di principi storicamente determinati come i diritti dell'uomo, ma in alcuni testi che si intendono di diretta emanazione divina, pertanto definiti sacri. Giudici e i tribunali di queste leggi sono religiosi.

Il problema non è l'esistenza in sé di una gerarchia religiosa riconosciuta da una comunità più o meno ampia di fedeli, la quale accetta e trasmette una serie di comportamenti collettivi basati su quei testi sacri. Il problema è l'estensione forzosa di queste regole all'intera collettività, sulla base di una pretesa universalità del dogma religioso; la forza di questo potere è tale che in molti Stati la religione di appartenenza dell'individuo non è una scelta più o meno consapevole, influenzata dell'ambiente sociale e familiare in cui questo si sviluppa, ma un elemento inscindibile della sua identità nazionale: chi nasce in Arabia Saudita non può che essere musulmano.

Pur nelle differenze, esiste un mutuo riconoscimento fra i fedeli delle tre grandi religioni monoteistiche che va oltre i conflitti e le tensioni ricorrenti, una dignità che esse non concedono ad altri. Certo non all'ateismo, relegato ad essere negazione del divino, identità mancante e definita in negativo dalla cultura religiosa prevalente. Apostasia, appunto. Eppure l'ateismo non è semplice assenza del divino, è affermazione di un altro sistema di valori, non necessariamente in opposizione, ma che non prevede la fede in un dio e di conseguenza non riconosce l'autorità della gerarchia religiosa sull'intera collettività ma la limita alla comunità di fedeli.

Il mancato riconoscimento dell'universalità dell'autorità religiosa è la radice del reato di apostasia: è un problema di potere. Chi crede in un sistema di valori che non contempla il divino toglie legittimazione all'autorità religiosa e ne mette a rischio la riproduzione; la eventuale concordanza dei valori laici in cui si riconosce l'ateismo con i principi fondamentali della dottrina è solo una riduzione del danno, in quanto restringe le aree di potenziale conflitto. Ma il danno è la perdita della presa dell'autorità religiosa su parte della collettività, a vantaggio di autorità altre e potenzialmente concorrenti, come lo Stato laico.

Uno Stato laico che faccia propri i principi dell'umanesimo, della promozione e della tutela dei diritti fondamentali dell'uomo rappresenta l'unico equilibrio possibile capace di garantire la libertà di ciascuno, credenti in un dio o in altro. La laicità è garanzia di una legge equa, che non tocca la sfera privata, che lascia liberi di regolare la propria esistenza in base ai propri personali convincimenti e valori, purché questi non rechino danno alla collettività.

Eppure, siamo ancora cittadini di uno Stato che ama definirsi laico, soprattutto quando condanna le barbarie di altre fedi religiose rispetto a quella cattolica, ma che non lo è. Che regola i propri rapporti con la Chiesa sulla base di un Concordato stipulato dal regime fascista, mai modificato nelle parti sostanziali, eccetto il riferimento alla religione cattolica come “sola religione dello Stato”, riferimento tanto esplicito da essere controproducente. Uno Stato nel quale però l'insegnamento della religione cattolica è a carico delle istituzioni pubbliche, all'interno del sistema educativo pubblico. Uno Stato che finanzia le scuole cattoliche, che sono la grande maggioranza delle scuole private in Italia, in palese contrasto con la propria stessa Costituzione repubblicana.

Uno Stato che permette l'applicazione di un ordinamento giuridico separato in relazione ai reati compiuti dagli enti centrali della Chiesa, che considera accettabile che sul proprio territorio nazionale le curie vescovili che hanno coperto e insabbiato reati di corruzione, di pedofilia, siano giudicate da tribunali ecclesiastici, generalmente assai poco severi per ovvi motivi di protezione corporativa. L'enormità di queste anomalie è evidente: per quale motivo reati compiuti sul territorio italiano, di cui sono vittime cittadini italiani o la collettività nel suo insieme, sono sottratti alla giurisdizione nazionale? Non è questo un indebito privilegio, che non accorderemmo mai a nessun altro soggetto?

Uno Stato che accorda alla Chiesa, primo proprietario immobiliare del Paese (20% del totale secondo Il Sole 24 Ore, per un valore di almeno 1000 miliardi di euro) privilegi fiscali che vanno ben al di là della tutela dei luoghi di culto, che trasferisce attraverso il meccanismo dell'8 per mille, definito “opaco e discriminante” dalla Corte dei Conti, 1 miliardo di euro l'anno, può essere definito laico? Uno Stato le cui istituzioni non battono ciglio, quando due giornalisti d'inchiesta italiani, Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, sono indagati dall'autorità giudiziaria vaticana per “concorso nel reato di divulgazione di notizie riservate” per aver reso pubbliche vicende di corruzione in Vaticano, può definirsi autonomo? Se fossero stati indagati dai tribunali di un qualsiasi Stato musulmano, forse sarebbero oggi dei simboli della libertà di stampa, l'incarnazione dei valori dell'occidente. Diremmo forse “noi siamo Nuzzi e Fittipaldi”, sulle bacheche dei nostri social.

Infine, uno Stato nel quale la sudditanza della classe politica rende estremamente difficoltosa l'introduzione di ogni cambiamento non gradito al di là del Tevere, nel quale sono ostacolate da almeno quindici anni norme sul testamento biologico, sul matrimonio egualitario e sul diritto di famiglia, è laico? Uno Stato dove la semplice rivendicazione di laicità delle istituzioni viene bollata spregiativamente come eccesso “laicista”, come radicale estremismo, come volontà di negazione delle radici culturali del Paese, è laico?

Da ateo mi piace ricordare le parole di Romano Prodi, che in occasione del referendum sulla legge 40 sulla procreazione assistita, ferocemente ostacolato dai porporati, disse semplicemente: “Io sono un cattolico adulto e vado a votare”. Ecco, questo Paese ha un disperato bisogno di una classe politica di adulti, cattolici o meno. Ma adulti, consapevoli del ruolo delle istituzioni e della necessaria autonomia della politica da ogni genere di gruppo di pressione, condizionamento, sudditanza.

Quando saremo capaci di riconoscere come naturale la netta separazione fra le priorità delle istituzioni repubblicane e le esigenze delle gerarchie religiose, potremo dirci laici, riconoscendo nella laicità dello Stato un linguaggio comune a tutti, senza distinzione di credo, religione, valori. Fino ad allora, atei e credenti non saranno, di fatto, uguali.

 

Foto: J. Boyer/Flickr


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