Le violenze sui minori raccontate in una canzone. Amnesty premia la Consoli

par Francesco Raiola
sabato 10 aprile 2010

di Francesco Raiola e Angela Verrastro

Niente è lasciato al caso, tutto è studiato meticolosamente, dalla musica alle parole musica di Mio zio: nei primi secondi sentiamo solo il basso, il dolore, inseguito subentrano gli altri strumenti che creano una melodia aspra, il contesto sociale che non vuole vedere il tuo dolore rendendolo così più acuto. 
 
La voce della Consoli avvolge tutta la canzone, si modula a seconda delle strofe, cadenzata, meno acuta, con le “r” marcate a sottolineare le sue radici etnee, arrabbiata, ma non rancorosa, sulle strofe del presente, quelle che raccontano il funerale; più acuta, quasi meno coinvolta nel ritornello che racconta il flashback, lo zio, la giostra, gli abusi.
 
Carmen Consoli racchiude in questa canzone - premiata da Amnesty Italia come “migliore brano sui diritti umani pubblicato nell’anno precedente”- un problema incomprimibile e assurdo come quello della violenza sui minori che assurge agli onori della cronaca solo quando un caso eclatante riscuote le nostre coscienze assopite. Basti vedere quello che succede in questi mesi con lo scandalo del Vaticano.
 
Il funerale dell’aguzzino è il luogo adatto per la rivendicazione di ciò che le è stato negato, l’infanzia e la credibilità; sembra che la Consoli, scegliendo il funerale come confessione pubblica, voglia quasi affermare che la morte non assolve.
 
Ripercorre lì quei momenti di infanzia negata, di giostre e gare, di innocenza usata come grimaldello per scardinare una serratura di burro: “Brava bambina fai la conta/Più punti a chi non si vergogna/Giochiamo a mosca cieca/Che zio ti porta in montagna”.
 
Non lascia spazio a interpretazioni la Consoli e in poche strofe racchiude una storia di violenze, ipocrisie. Trasforma il disprezzo profondo, i loro occhi addosso per colei che ha svelato l’ignobile incesto e non è stata creduta, trasforma questo disprezzo in forza, lo usa come un bastone per tenersi su. Non usa immagini retoriche, non ricorre alla sensazione quando canta: Madre non piangere, ingoia e dimentica/Le sue mani ingorde tra le mie gambe: nella violenza carnale non può esserci elaborazione del dolore ma solo un parziale oblio.
 
Non sembra esserci perdono in questa canzone, anzi non ce n’è, c’è la volontà di sfidare a testa alta chi l’accusa di aver infangato l’animo puro, c’è il rossetto rosso e soprabito nero, c’è il lutto assurto a sfida. C’è la ri-creazione simbolica della violenza sui minori, col soprabito che sta ad indicare l’apparenza, la superficie, il nero, colore consono ai funerali (così vuole il costume per un uomo che si rispetta, per il nobile esempio di padre, di amico e fratello) mentre sotto il soprabito niente, la nudità come il dolore intimo e profondo, ciò che rimane togliendo il chiacchiericcio e i giudizi e infine il rossetto rosso carminio, ovvero la violenza ma anche la ribellione di una bocca che non sta più zitta.
 
Poi ci sono i flashback, c’è la verità del passato che fa da contraltare alla falsità del presente: “Brava bambina fai la conta/Più punti a chi non si vergogna/Giochiamo a mosca cieca/Che zio ti porta in montagna”, c’è lo schifìo di una violenza che colpisce 40 milioni di bambini nel mondo, lo schifìo di doversi guardare attorno, troppo vicino: “La famiglia è il luogo fisico e ideale nel quale dovremmo trovare sempre rifugio e protezione e invece diventa troppo spesso il teatro di mostruosità,- come dice la stessa Consoli ringraziando Amnesty per il premio - un teatrino che tendiamo a nascondere dietro il perbenismo, l’ipocrisia, la menzogna, a discapito ancora di chi non sa e non può difendersi.
 
Possono poco più di 3 minuti raccontare un mondo? La Consoli, semmai ce ne fosse ancora bisogno, ci dà la risposta.
 

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