Le schiave sessuali del Giappone in guerra attendono ancora giustizia

par Riccardo Noury - Amnesty International
giovedì 16 agosto 2012

Questa è una storia di donne che invecchiano, e muoiono, senza aver ottenuto giustizia. La racconto oggi (15 agosto ndr), in occasione del 67° anniversario della dichiarazione di resa del Giappone, con cui finì la Seconda guerra mondiale.

Dal 1932, sul fronte asiatico del conflitto, 200.000 donne vennero ridotte in schiavitù sessuale dall’esercito giapponese in Cina, Borneo, Filippine, Singapore, Taiwan, Malaysia, Myanmar, Indonesia (cito i paesi e territori coi loro nomi attuali) e in molte isole del Pacifico.

Rapite, portate via con l’inganno o vendute da famiglie povere nei territori occupati, furono costrette per mesi e anni a lavorare nelle “stazioni di conforto” allestite per la soldataglia. La maggior parte di loro aveva meno di 20 anni, le più piccole 12.

Le sopravvissute, tornate a casa dopo il 1945, hanno portato dentro di sé il trauma della violenza. Isolate, povere, ammalate, vergognose, molte sono morte senza essere mai riuscite a raccontare l’orrore della loro esperienza.

Negli ultimi anni, alcune donne, sebbene molto anziane, hanno deciso e trovato la forza di togliere il tappo dalla bocca. Hanno parlato, accusato, denunciato. Hanno fondato associazioni, come in Corea del Sud. Hanno intrapreso lunghi viaggi all’estero per far sapere al mondo la storia rimossa delle “donne di conforto”.

Una di loro è Gil Won-ok. Nel 1998, 53 anni dopo la sua liberazione, ha raccontato al Parlamento europeo come a 13 anni venne rapita con l’ingannevole promessa di un lavoro in una fabbrica della Cina, per poi ritrovarsi schiava dell’esercito imperiale nel nord-est del paese occupato. Da allora, ha viaggiato in Australia, Olanda, Stati Uniti ed è stata anche in Giappone, per pretendere le scuse da parte del governo. Recentemente, si è schierata dalla parte delle donne sopravvissute allo stupro nella Repubblica democratica del Congo.

Le autorità di Tokyo non hanno mai espresso chiare parole di rincrescimento, accettato di assumere piena responsabilità legale o fornito una riparazione effettiva e adeguata. Tutte le questioni relative alla giustizia, dicono, sono state sistemate coi trattati di pace. I risarcimenti economici finora proposti sono stati rifiutati dalle sopravvissute, che li hanno giudicati un tentativo di comprare il loro silenzio.

Sul sistema di riduzione in schiavitù sessuale durante la Seconda guerra mondiale, i testi scolastici giapponesi preferiscono ancora non approfondire.

Nel 2007, la Camera dei rappresentanti degli Usa ha adottato una risoluzione che descrive quel sistema come un fatto “senza precedenti per dimensione e crudeltà” e “uno dei principali casi di traffico di esseri umani nel XX secolo”, chiedendo al governo giapponese di rendere giustizia alle sopravvissute.

Analoghe risoluzioni sono state adottate dai parlamenti di Canada, Olanda, Corea del Sud e Taiwan e dal Parlamento europeo. Le medesime richieste sono state avanzate da vari organi delle Nazioni Unite, tra cui il Comitato per i diritti umani, il Comitato contro la tortura e il Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne.

Ma per il Giappone, evidentemente, la faccenda si è chiusa il 15 agosto di 67 anni fa.


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