Le ONG salvano i migranti? Dizionario e logica preda di interessati manipolatori

par G. Matteo Vaccaro-Incisa
martedì 4 luglio 2017

Negli ultimi tempi si è aperto un tentativo di analisi sull’attività di quelle organizzazioni che, stazionando a 20 chilometri dalle coste della Libia, traferiscono i migranti -affastellati in gommoni o bagnarole da criminali senza scrupoli- sulle proprie imbarcazioni, per portarli oltre 500 chilometri più a nord, in Sicilia.

Politici interessati e media non troppo attenti hanno eretto una difesa “di principio” (…) contro gli “attacchi” di chi ha criticato l’anomala recente moltiplicazione di imbarcazioni di “ONG internazionali” (locuzione che non vuol dir nulla) subito al di là delle acque territoriali libiche (i famosi 20 chilometri), volta a “salvare i migranti”. Criticata è anche la mancanza di coordinamento dell’attività di queste ONG, i cui effetti ricadono tutti sull’Italia.

Una mappa nella mano sinistra ed un dizionario in quella destra credo possano aiutare a non finire vittime di modesta retorica, o banale ignoranza.

Secondo la Treccani, “salvare” vuol dire “sottrarre ad un pericolo”. “Pericolo” vuol dire “circostanza da cui si teme che possa derivare grave danno”. Pertanto, “salvare” vuol dire “sottrarre ad una circostanza da cui può derivare grave danno”. Questa frase ahimè si presta ad un ventaglio di interpretazioni: cosa è un “grave danno” e, soprattutto, come si fa a stabilire la “potenzialità” del “pericolo”? Nel fenomeno dell’immigrazione clandestina di massa via mare è facile confondere il “grave danno” nella “fuga” degli immigrati da fame, persecuzioni, e torture. Tuttavia, un altro termine della definizione aiuta ad inquadrare ruoli e valutazione di ciò che sta succedendo: il pericolo dipende dalla “circostanza”. Il termine vuol dire, in origine, “luogo vicino” e, per estensione, “condizione particolare che accompagna un fatto e ne determina la natura, l’importanza”. Ora, il “luogo vicino” sappiamo tutti qual è, a 20 chilometri dalla Libia ed a 500 dall’Italia (300, se consideriamo Lampedusa). Nel caso dell’immigrazione di massa clandestina via mare, la “condizione particolare” che determina la necessità di “salvare” è che i gommoni sono sovraccarichi e rischiano di affondare. Il “pericolo” è la morte per annegamento (non ciò che l’emigrato si è lasciato alle spalle nella terra d’origine, per quanto orribile). Lingua e logica “ci salvano” dagli abusi interessati di alcuni attori coinvolti: nell’ottica di chi carica clandestini sui gommoni, se è noto che il tragitto sarà di 20 chilometri e non di 500, è “naturale” caricare il gommone in modo tale che resista solo per la distanza inferiore, guadagnando di più non solo su quel viaggio ma, soprattutto, nel medio periodo: determinando il tragitto breve un minor “pericolo” (anche per chi esercita questo “business”), i “clienti” non possono che aumentare.

Per concludere: piazzarsi a 20 chilometri dalle coste libiche in attesa di gommoni sovraccarichi cambia la “circostanza” del concetto stesso di “salvare”, stravolgendolo: aggravando il sovraccarico, quindi il pericolo di affondamento, quindi di morte dei passeggeri e quindi rendendo necessario ancora più “soccorsi” in zona, col risultato di aumentare il “traffico”. Si mette in piedi un circolo vizioso, dove i criminali guadagnano di più ed i “salvatori” diventano eroi ma tutti gli altri ci perdono (migranti inclusi).

L’Italia ha giocato male la partita. Prima ha subìto, poi ha cercato di coinvolgere l’UE, infine ha siglato un accordo con un governo in Libia che controlla (male) una frazione del territorio. Anche l’ultimo suggerimento, di sequestrare le imbarcazioni delle “ONG internazionali” presenta grosse controindicazioni politiche a livello internazionale. Piuttosto, alla luce dell’emergenza internazionale ed in deroga alla convenzione internazionale sul diritto del mare, l’Italia da tempo avrebbe dovuto convocare una conferenza dei paesi dell’area più interessati e promuovere l’istituzione temporanea di un’ampia “zona non navigabile” (come per le più famose “no-fly zones”), rimodulando poi in sede UE l’operazione Triton per il pattugliamento. L’Unione non può (perché non sa) e non deve (perché la difesa delle frontiere è ancora compito degli Stati) sostituirsi all’Italia in questo contesto; è l’Italia che dovrebbe essere capace di “usare” l’UE come strumento di pressione (sull’uomo di turno al “comando” in Libia, per esempio) per far passare le iniziative italiane in risposta ad una crisi che l’Italia si trova a sostenere per conto terzi.

 

G. Matteo Vaccaro-Incisa

PhD, LLM, MSc, Esq.

Professeur-Chercheur of International Law

IESEG Paris - France


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