Lavoro: in Italia c’è. Ma pochi lo sanno

par Emilia Urso Anfuso
venerdì 10 febbraio 2012

Non darò ragione a chi ha dichiarato che “Il posto fisso è noioso”. Non mi aspettavo dichiarazioni del genere da un Primo Ministro che avrebbe dovuto essere un “tecnico” e che invece anche “grazie” al tipo di Comunicazione che si è scelto di fare, sta alimentando grossi dubbi sulla reale “tecnicità” della subdola legislazione in corso.

Non darò nemmeno troppa ragione a chi ha dichiarato che “Gli italiani vogliono il lavoro vicino a mammà”. Non darò ragione a questa dichiarazione, solo perchè poteva esser formulata diversamente. Ancora meglio: tacere spesso è meglio che parlare. Ci sono i tempi, i modi, le chiavi di apertura. Che nessuno sembra ormai conoscere, in special modo in questa strana Italia del secondo millennio che, per come è stata stravolta in ogni settore appare essere già un inizio inoltrato di fine del mondo. Almeno, del mondo che pensavamo di conoscere.

Però, pur non volendo alimentare ulteriori polemiche sulle polemiche già in corso, trovo doveroso riflettere sulla realtà lavorativa del nostro Paese. Ritengo del tutto inutile e sterile, continuare a battibeccare su chi un posto di lavoro già ce l’ha. Se ci fate caso, le diatribe hanno sempre gli stessi tre elementi: gli occupati, i disoccupati, i cassaintegrati.

Sui primi, si parla relativamente allo stato di sicurezza di continuità di lavoro. Sui secondi, della “notevoli difficoltà” a trovare lavoro. Dei terzi, a seconda dei casi, dei periodi storici e dell’eventuale tornata elettorale in essere, si dice di tutto. Ma si dice male.

Pochi sanno che in Italia ancor oggi pur in piena crisi, esistono settori che hanno una elevata proposta lavorativa. Parlo di settori quali ad esempio l’Informatica o la ristorazione. Questi due settori infatti, e ve ne sono altri, presentano tutt’ora una grande proposta lavorativa. Che però, per ragioni variegate, viene quasi del tutto snobbata. Da chi? Da tutti più o meno. Nel senso che: molti giovani, per ragioni proprie o dettate dalla famiglia o dal pregresso globale, scelgono a volte facoltà universitarie o comunque percorsi di studio che non sono assolutamente aderenti poi alla reale offerta di lavoro.

In pratica: inutile del tutto che l’Italia produca ogni anno un tot migliaio di esperti di comunicazione se poi all’atto pratico il mondo del lavoro non offre un alto livello occupazionale. Meglio sarebbe quindi, fondamentalmente, capire prima della scelta del percorso di studio, quale sia la realtà occupazionale del territorio in cui si vive e di conseguenza, scegliere.

Invece, ogni anno si creano nuovi potenziali disoccupati o – nella migliore delle ipotesi – di potenziali precari per il solo fatto che si sceglie non in base ad un criterio logico, bensì per l’estro del momento o per seguire le proprie personali inclinazioni. Che sarebbe giustissimo seguire – lo dice anche la nostra Costituzione – ma che in tempi di crisi del mercato del lavoro, non trova poi una risposta concreta. Peraltro, lo zoccolo più duro dei potenziali lavoratori, sembra essere proprio quello di chi – ad ogni costo – ha scelto su basi fortemente personali il proprio percorso universitario e non basato sulle reali richieste del mercato del lavoro.

In pratica: si crea ogni anno un settore di persone che potremmo definire “idealisti del secondo millennio” che studiano ciò che sentrono più vicino ed aderente alla propria personalità, senza però ragionare in termini pratici e di attuazione poi nel concreto delle conoscenze acquisite. E’ il solito giochetto del “Ho studiato per fare il medico, non farò mai un altro lavoro”. A questo punto, non si può trovare alcun tipo di soluzione poichè appunto il problema nasce alla base.

Certamente poi, sono anche molti i giovani che invece – pur avendo ottenuto lauree specialistiche in vari settori – si rimboccano le famose maniche, ed in tempi di penuria occuopazionale, scelgono – magari per periodi limitati – di svolgere mansioni del tutto differenti dalle capacità e conoscenze acquisite studiando.

 Ma a questo punto, ecco entrare in gioco un altro elemento che fa del mercato del lavoro in Italia, il bailamme infernale che ormai tutti conosciamo. Nel caso in cui, le nuove generazioni di potenziali lavoratori scelgano per le ragioni sopra descritteoccupazioni poco aderenti alle conoscenze e capacità acquisite, ecco che scatta un nuovo elemento a dare colpi di mazza sul rispetto che si dovrebbe a tutti i lavoratori in senso globale: gli emolumenti.

Milioni di persone ogni giorno, pur di avere la sensazione di lavorare (...) accettano occupazioni non solo poco aderenti alla propria preparazione professionale ma anche di livello retributivo a dir poco da fame. E’ questo un altro settore che bisogna tener bene a mente quando si riflette e parla della situazione lavorativa in Italia. A furia di parlare di crisi del mercato del lavoro, a furia di battibeccare fra mondo politico e sindacale, a furia di voler accendere ogni giorno una miccia sfruttando la quotidianità di milioni di cittadini/contribuenti/elettori, invece di trovare soluzioni si continua a parlare dei problemi, senzamai offrire uno spiraglio di soluzione.

Mi chiedo: perché nessuno ha in mente di mettere in atto – ad esempio – campagne di informazione e sensibilizzazione su come e cosa è meglio scegliere sul mercato del lavoro affinché si tenti di intraprendere le strade migliori per assicurarsi da un lato la continuità lavorativa e dall’altro il giusto emolumento che non dovrebbe mai essere poco rispettoso persino dei diritti degli esseri umani?

Ed ancora: quando si scrivono dati sull’occupazione in Italia, perché mai nessuno fa un’analisi reale della situazione? Basterebbe metter luce ogni volta, ad esempio, ai tanti contratti a termine, ai vari “stages” che in realtà sono forza lavoro gratuita per molti, ai troppi casi di nepotismo in tutti i settori, alle tante “raccomandazioni” che inondano ogni giorno le scrivanie di dirigenti di imprese pubbliche e private.

Tutto ciò, porta ad una sorta di distorcimento della realtà. In quanto molti sono occupati ma non per diritto, semplicemente per “gratifica”. E tolgono possibilità lavorative a molti che con quel lavoro ci si pagherebbero il mutuo per la casa o riuscirebbero a svincolarsi dalle famiglie di origine. Troppi “figli di papà” stanno togliendo ossigeno a chi di lavoro ci vivrebbe. Se poi davvero alla fonte, negli ambienti della politica, dell’economia e dei sindacati si volesse raggiungere un buon livello occupazionale con conseguenti emolumenti meritocratici, sarebbe necessario informare – e bene – giovani e meno giovani, così da portare tutti ad uno stato occupazionale che magari non è aderente al 100% alle proprie aspettative, ma che consentirebbe un più omogeneo e meritocratico ingresso nel mondo del lavoro.

Tutto ciò non viene fatto, probabilmente perchè è ormai abbastanza chiaro che ogni tipologia di istituizione, e non solo in Italia, basa la propria esistenza sul territorio non tanto per la risoluzione delle eventuali problematiche quanto sullo sfruttamento globale delle criticità.

Nelle criticità, per aberrante che possa sembrare, si trovano mille strade che possono portare a milioni di altre strade. Possono portare di volta in volta verso la corruzione, il nepotismo, lo sfruttamento elettorale, l’aumento di uno stato di “potere” che esiste in base allo stato di assogettazione più o meno percepito dall’intera nazione, e via criticizzando.

Le conseguenze dirette ed immediatamente visibili di tutto questo, è la dinamica perversa per cui, se è pur vero che esiste attualmente una grossa offerta di lavoro in determinati settori, essi non trovano risposta. Ed i non collocati al lavoro, paradossalmente, crescono di anno in anno.

Diverso il discorso, per chi il lavoro ce lo aveva e lo perde. Ma questo magari, lo affronteremo in un altro articolo.

Tutto ciò detto, deve a mio parere essere inizio di un ripensamento – da parte di tutti – di ciò che pensaimo debba essere il mercato del lavoro e la capacità del sistema in cui si vive di collocare a lavoro il maggior numero di persone. Cosa perlatro fondamentale se si vive in contesti in cui proprio la cittadinanza è chiamata a contribuire fortemente allo stato in essere della stessa nazione.

Da noi, è diventato un cane che si morde la coda: la gente non viene informata su come e cosa sia meglio fare per assicurarsi per quanto è possibile una collocazione stabile al lavoro. Di conseguenza, il fatto che di anno in anno l efila dei disoccupati e dei precari si gonfia, fa si che lo stesso Stato subisca poi perdite crescenti di contribuzione da lavoro dipendente, con la ciliegina finale poi, di fare lotte ai mulini a vento, parlando di altro, di problemi diversi, come la ormai annosa lotta all’evasione fiscale.

Forse, un piccolo ritorno a slogan del passato aiuterebbe. Stato e cittadini a ritrovare un pò di ragione: “Lavorare poco, lavorare tutti”. “Lavorare poco, lavorare tutti, contribuire tutti insieme al benessere della comunità”... aggiungo io.

Finchè così non sarà, non faremo altro che vedere e è percepire solo una piccola parte delle problematiche reali. Perchè non facendo trapelare altre possibilità, non si rende la gente capace e di conseguenza libera di comprendere e di scegliere. Anche questo, è frutto di quel regime intangibile cui siamo stati chiamati tutti o quasi ad esser vittime.

Reinterpretare se stessi e nel comtempo, sapersi dare un valore, resta comunque alla base di un successo che da indiiduale può divenire nazionale. Se solo qualcuno inizierà a pensare diversamente da come la propaganda di Stato decide di far percepire le cose.

Se è pur vero che la crisi esiste ed esiste anche nel mercato del lavoro, trovare la famosa via di mezzo fra le personali aspettative e la realtà che ci circonda, può essere la soluzione. Può essere...

 
ISTAT: dati sul lavoro in Italia
 
Italia: cresce l'occupazione per gli stranieri

Leggi l'articolo completo e i commenti